Persona è un film dai molteplici risvolti, ma, innanzi tutto, è una scena dominata dalle sue due uniche interpreti: tanto la Ullmann, quanto la Andersson, sono eccezionali nel mantenere costante l’intensità del film, l’una con la sola espressione del volto, l’altra muovendosi a lei attorno senza mai prevaricare, riuscendo a creare un equilibrio perfetto tra il mutismo voluto e la verbosità indotta. Il risultato è la credibilità d’un rapporto che più impari non potrebbe essere, tant’è che l’infermiera finisce per oltrepassare la soglia del proprio dovere assistenziale, mettendo se stessa in competizione con l’attrice, subendone ma combattendone la personalità.
Le due donne, radicalmente opposte nel comportamento, lentamente convergono, fino a coincidere nel finale: se Elisabeth non parla, Alma si sdoppia, parlando, oltre che con l’assistita, anche con la cinepresa; ma, alla fine, entrambe pronunciano ed ascoltano lo stesso discorso, l’infermiera recita l’animo dell’attrice, l’attrice lo rifiuta, dichiarandosi infermiera. Dietro all’eccelso livello formale, il cuore del film è il lato psicologico: Elisabeth non parla più perché vuole smettere di recitare, di apparire, e limitarsi ad essere. “Ogni parola è menzogna”: attraverso la sua scelta spera non solo di rivelarsi agli altri per quello che è, ma anche di non perdere mai ella stessa la coscienza di sé.
L’importanza del piano psicologico è amplificata dai costanti riferimenti formali, quali l’inquadratura sulle mani di Alma mentre apprende il proprio compito, la figura del bambino che cerca di sfiorare l’immagine del volto ora dell’una, ora dell’altra donna, o i titoli di testa, intervallati da fotogrammi, epifanie di scene ancora lungi dallo svolgersi. Si muove tra i due piani anche il significante dell’infermiera: Alma, ovvero anima, già così sufficientemente significativo, è la traduzione di Hadjek, l’ultima parola di Johan, il bambino, ne Il silenzio. Non è meno particolare l’altra, Elisabeth Vogler, lo stesso cognome del protagonista de Il volto, la stessa scelta di mutismo. Il percorso autoreferenziale continua, perché Bergman fa propri di questo film anche i problemi spirituali della trilogia del silenzio, a partire dalla crocifissione che si vede nelle primissime immagini, dall’apparente funzione esclusivamente metatestuale; sembra leggere il copione di Luci d’inverno, Alma, quando parla delle “grida della fede e del dubbio nell’oscurità e nel silenzio”; infine, nascono da lontano anche la lenta metamorfosi dell’infermiera ed il tema della difficoltà d’essere ascoltati e capiti, come il gioco di luci sui volti delle due protagoniste.
Tutti questi problemi sono proposti, come sempre, e lasciati lì; Bergman si comporta contradditoriamente, nei loro confronti: i frequenti interventi metacinematografici, il monologo nella cinepresa o la pellicola che si rompe, sembrano voler racchiudere il tutto entro la finzione filmica, mentre i riferimenti agli avvenimenti del mondo esterno lasciano propendere per un’universalizzazione dei temi trattati. Al solito, non è possibile sottrarsi al confronto che il regista impone allo spettatore: ogni interpretazione è possibile, almeno una è necessaria. |