Cinema del Silenzio - Rivista di Cinema

Berlino 2008 15/02: Il cinema d'autore di 'Ballast' e 'Katyn'

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a cura di Andrea Olivieri
Ventiduemila ufficiali dell'esercito polacco eliminati nell'arco di pochi giorni e gettati nelle fosse comuni. Un'intera classe dirigente sterminata, per piegare un Paese e soggiogarlo al dominio sovietico. Andrzey Wayda commuove e sciocca la Berlinale con la denuncia di uno dei massacri più taciuti e controversi della Seconda Guerra mondiale: l'esecuzione di massa avvenuta a "Katyn" nell'aprile del 1943, che dà il titolo al suo dramma fuori concorso, quest'anno anche in gara per l'Oscar al miglior film straniero.
"Per molto tempo è stato impossibile scoprire la verità - racconta l'81enne regista, già Orso d'Oro alla carriera nel 2006 - L'Unione Sovietica ha compiuto un insabbiamento sistematico e addossato ogni colpa alla Germania nazista per oltre mezzo secolo. E' soltanto nel '92 che Yeltsin ha ammesso pubblicamente come alle spalle di quel massacro ci fosse un preciso ordine di Stalin".
Applauditissimo, con grande commozione, dai giornalisti in sala stampa, Wayda chiarisce subito il senso della sua operazione: "Quello di cui parlo è un tempo ormai lontanissimo, ma che deve essere ricordato e restituito alla memoria collettiva". Parla con sentimento e partecipazione il regista polacco. Oltre che da cineasta, il massacro di Katyn l'ha infatti toccato anche sul piano personale: "Quella cui ho voluto dar voce è la prospettiva delle tantissime vittime e delle famiglie che a casa li aspettavano, senza sapere che fine avessero fatto. Un'esperienza che ho vissuto sulla pelle, perché mio padre era fra loro. Ricordo come mia madre, prima di morire, nel 1950 ancora non si rassegnasse al fatto che non sarebbe mai più tornato".
Con "Ballast" di Lance Hammer, presentato oggi alla Berlinale, il Festival si riappropria del cinema d'autore, e dei temi sociali. Il film narra le vicende di una madre single, alle prese con la sopravvivenza del figlio e il confronto con un uomo sull'orlo del suicidio dopo un disastro economico. "C'è molto da fare - dice il regista - per chi nella società è stritolato dai meccanismi del potere e del denaro. Il cinema si fa megafono di una protesta, in nome della dignità umana".
Tra i film in concorso nella giornata di giovedì, arriva dalla Francia "I've Loved You So Long", titolo d'esordio alla regia dello scrittore Philippe Claudel ('Le anime grigie', tra i suoi romanzi). Il regista porta sullo schermo una storia intensa e toccante ma soprattutto un'immensa Kristin Scott Thomas, che si impone tra le favorite all'Orso d'argento come miglior attrice. Compassata, silenziosa, quasi irriconoscibile per l'assenza di trucco, la britannica Scott Thomas, qui in lingua francese, interpreta Juliette, una donna che esce dal carcere dove ha scontato 15 anni per l'omicidio del proprio figlio. Trova riparo dalla sorella minore, Léa (splendida Elsa Zylberstein), sposata e con due figlie adottive. Riaffacciarsi alla vita porta a Juliette altro dolore, cui però si sottopone con il sostegno di Lea. "La prigionia lascia segni indelebili sui corpi e nell'anima. Volevo che nel mio film, per il quale avevo un'idea precisa fin dalla genesi, ciò emergesse con chiarezza", spiega Claudel. "I've Loved You So Long" uscirà nelle sale italiane probabilmente a fine aprile distribuito da Mikado.
Dall'Israele una storia intima e personalissima, che nelle inquietudini del regista trova un motivo di speranza per la pace in Medioriente. E' lo strano caso di "Restless", dramma rigorosissimo su solitudine e incomunicabilità presentato nella giornata di ieri e in gara per l'Orso d'Oro, che Amos Kollek ha girato per fare i conti con l'ingombrante figura paterna: "A casa era sempre assente e con lui non ho mai avuto con lui un grande rapporto - racconta il cineasta, figlio di un celebre sindaco della città di Gerusalemme, proprio di recente scomparso - Ho approcciato questo film per convincermi che le persone possano davvero cambiare. All'inizio di questa avventura, non sapevo però dove mi avrebbe portato. Soltanto alla fine delle riprese ho capito che la possibilità esiste davvero. E se cambiano gli esseri umani, un intero paese può riuscirci e finalmente trovare la pace".
Lui stesso nato a Gerusalemme, ma da lungo tempo emigrato negli Stati Uniti, Kollek ha messo la sua biografia a servizio dell'intera storia. A parlare di lui e del travagliato rapporto col padre e con la sua terra, è sullo schermo proprio un cinquantenne israeliano che si è lasciato alle spalle patria e famiglia, per cercare fortuna a New York. Mentre lui, ruvido e disilluso, tenta lì di sbarcare il lunario, il figlio che ha messo al mondo e abbandonato 21 anni prima coltiva il suo livore dagli avamposti del Libano. Commerciante di gioielli che naviga in cattive acque, il padre affida la sua rabbia di artista frustrato a strampalate poesie, scribacchiate sui tovaglioli dei bar e poi recitate in un nightclub. Alla platea ebrea che lo segue con crescente passione, rivela così il suo misto di amore e odio, per quella "terra della violenza e della stupidità" da cui si è sentito respinto.
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