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La Sacher Distribuzione porta nelle sale italiane venerdì 21 ottobre "Una separazione", otto mesi dopo il trionfo al Festival di Berlino dove ha ottenuto l'Orso d'oro e i riconoscimenti per la recitazione tanto per il cast maschile quanto per quello femminile. L'ufficio stampa del film ha distribuito questa breve intervista al trentanovenne regista Asghar Farhadi, già premiato con l'Orso d'argento due anni fa per "About Elly", che proprio ha Berlino ha iniziato a pensare il suo nuovo film, poi girato in Iran. |
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Cosa l'ha spinta a realizzare questo film? Come è nata l'idea? |
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Mi trovavo a Berlino e lavoravo ad una sceneggiatura che era ambientata in questa città. Una sera, a casa di un mio amico, in cucina, ho sentito un brano iraniano che arrivava dalla porta accanto. All’improvviso, la mia mente è stata sopraffatta da ricordi e immagini legate ad un’altra storia. Ho cercato di liberarmene e concentrarmi sulla sceneggiatura che stavo sviluppando, ma non ci sono riuscito. Le immagini e le idee erano penetrate dentro di me e non mi abbandonavano, così in strada e sui mezzi pubblici ero seguito dall’idea di una storia proveniente da un altro mondo, che disturbava il mio soggiorno a Berlino. Alla fine ho accettato il fatto di trovarmi sempre più vicino a questa storia ogni giorno che passava. Così, sono andato in Iran e ho iniziato a scrivere quest’altra sceneggiatura. Insomma, possiamo dire che la pellicola è stata concepita in una cucina di Berlino... |
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Come lavora con i suoi attori? |
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Di solito ci metto molto tempo per scegliere gli attori e anche questa volta è stato così. Non voglio mettere in difficoltà gli interpreti facendo delle considerazioni generali sul film o sulla mia visione personale. Ritengo che l’attore non debba conoscere il significato generale della pellicola, ma che debba concentrarsi sul modo migliore di descrivere il personaggio e le sue intenzioni. In effetti, il mio metodo è di adattarmi ad ogni interprete, al suo modo di essere e di fare. Quello che non cambia è l’importanza delle prove. È in quel momento che gli attori diventano i personaggi. Questo significa che durante le riprese possiamo concentrarci sui dettagli, visto che le basi sono già state poste. Ci prendiamo del tempo per provare, partendo da una sceneggiatura molto dettagliata e che seguiamo con cura, per consentire ad ogni attore di capire le diverse sfumature del proprio personaggio. Probabilmente questo approccio deriva dalla mia esperienza teatrale. Questo non significa che le proposte o le opinioni altrui siano vietate, ma le prove sono l’unica fase in cui discuterne. Una volta che iniziamo le riprese, siamo d’accordo che le variazioni saranno minime. |
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Come avete girato il film? |
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Tutte le scene sono state realizzate nelle location reali. Tuttavia, per le scene nell’ufficio del giudice e in aula, non avendo ricevuto l’autorizzazione a girare sul posto, abbiamo ricostruito questi ambienti in due scuole abbandonate. |
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La separazione al centro del suo film è soltanto quella di una coppia? |
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Non penso che sia importante far conoscere al pubblico le mie intenzioni, preferisco che la gente esca dal cinema ponendosi delle domande. Ritengo che il mondo oggi abbia più bisogno di domande che di risposte. Le risposte non ti spingono a fare domande e pensare. Fin dalla scena d’apertura, avevo l’intenzione di raggiungere questo obiettivo. La prima domanda della pellicola è se un bambino iraniano ha un futuro migliore nella sua terra o all’estero. Non ho una risposta preconfezionata. Mi piacerebbe che questo film portasse lo spettatore a porsi delle domande del genere. |
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Sono le donne ad essere protagoniste. Perché? |
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Nei miei film, cerco di fornire una visione realistica e complessa dei miei personaggi maschili e femminili. Non so perché, ma le donne sembrano possedere una maggior forza di cambiare le cose. Forse è una scelta inconscia. Magari, in una società in cui le donne sono oppresse, anche gli uomini non possono vivere in pace. Attualmente in Iran sono le donne che si battono maggiormente per cercare di riottenere i diritti di cui sono state private. Hanno una resistenza e una determinazione maggiori.
Anche se ci sono due donne al centro del film, sono donne che hanno compiuto delle scelte molto diverse nella vita. Entrambe hanno i loro segreti. Una è povera, con tutte le sue necessità. L’altra fa parte della classe media. |
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Voleva mostrare espressamente un ritratto più complesso delle donne iraniane? |
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Gli occidentali spesso hanno una visione limitata delle donne iraniane, che ritengono essere passive, chiuse in casa e lontane da ogni attività sociale. Forse alcune donne iraniane vivono così, ma per lo più sono attive nella società, magari anche in maniera più diretta degli uomini, nonostante le limitazioni a cui sono soggette.
Questi due tipi di donne sono presenti nella pellicola, senza venire condannate o essere considerate delle eroine. Il confronto tra queste due donne non rappresenta il bene contro il male, ma due visioni del bene in conflitto. Ed è qui che, a mio avviso, nasce la tragedia moderna. C’è un conflitto tra queste due realtà positive e la mia speranza è che lo spettatore non riesca a decidere chi debba avere la meglio tra le due. |
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Ritiene necessario conoscere la cultura o la lingua per capire tutti i possibile piani di lettura del film? |
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Probabilmente è più semplice per il pubblico iraniano instaurare un legame completo con la pellicola. Conoscere la lingua, così come il contesto e la struttura sociale in cui la storia ha luogo, senza dubbio permette di arrivare a interpretazioni meno banali.
Tuttavia, al cuore della storia c’è una coppia sposata. Il matrimonio rappresenta un rapporto tra due esseri umani, che non dipende dall’epoca o dalla società in cui si vive. La questione dei rapporti umani non è legata a un posto o a una cultura precisa, ma è invece uno dei problemi principali e complessi della società moderna. Insomma, ritengo che l’argomento trattato dal film lo renda accessibile a un ampio pubblico e in grado di superare i confini geografici, culturali o linguistici. |
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