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Filippo Costa, giovane agente della guardia di finanza, di modesta estrazione sociale cova una enorme ambizione che lo tiene a distanza dai suoi colleghi e dalle sue origini. All’inizio pensa di fare carriera all’interno del lavoro che si è scelto, poi però quando si trova a confrontarsi direttamente con la corruzione capisce che può mirare molto più in alto. Nella sua irresistibile ascesa sociale viene aiutato da Caterina, una donna più grande di lui, bella, colta, elegante, molto ricca e molto innamorata. Grazie a lei Filippo entra in contatto con il mondo dell’alta finanza e inizia la scalata ad uno stato sociale economicamente prestigioso. Ma per non essere schiacciato dalle ciniche regole di quel mondo, Filippo è costretto ad abbandonare ogni ulteriore residuo di remora umana e morale. |
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Terzo film italiano in concorso alla 64a Biennale, “L’ora di punta” chiude, purtroppo in maniera anonima, la partecipazione nostrana al festival di casa. Il film di Vincenzo Marra, apprezzato regista di “Vento di terra” (vincitore, sempre a Venezia, nella sezione ‘Orizzonti’ tre anni addietro), si segnala soprattutto, se non soltanto, per la schiettezza con la quale mostra quelli che in altri tempi, e con ben altri film, Andreotti definì ‘panni sporchi’; la differenza – una delle tante – è che questo film non mostra, non testimonia, ma si limita a raccontare. Non è un male, in fondo è questo che si richiede a un film; ma al senso di sgradevolezza che accompagna l’escalation di manovre sporche non si accompagna il pathos di chi assiste a qualcosa di reale. Filippo Costa è uno dei protagonisti più abietti, più negativi che il cinema italiano degli ultimi anni ricordi, ben oltre l’usuraio Geremia de “L’amico di famiglia”: ma se il personaggio di Sorrentino causava malessere, oltre alla repulsione, di fronte al finanziere-imprenditore si prova disprezzo e nulla più. Dispiace, anzi, che il giustificato senso di sdegno nei confronti del protagonista si propaghi a tutto l’ambiente della Guardia di Finanza, rappresentata senza un perché come un mondo di corruzione, nel quale nessuno è pulito e chi non si sporca le mani pensa a vendicarsi di chi ha fatto carriera.
Michele Lastella riesce a risultare antipatico in un ruolo che richiedeva soltanto quello, nemmeno Fanny Ardant regala al film quel ‘qualcosa in più’ per il quale una grande interpretazione trasforma un’opera media in una degna d’essere ricordata. Sono suggestivi i luoghi, ma vedere i personaggi incontrarsi sempre nei posti più turistici di Roma contribuisce al senso di irrealtà, da qui di freddezza e finzione.
Una chiave di lettura interessante ci è fornita prima dei titoli di coda: il film sul finanziere corrotto, figlio però di un finanziere ‘modello’, si conclude con la dedica del regista a suo padre. Se la cosa ha un significato, è comunque qualcosa che va oltre il film, e lì rimane, senza arricchirlo. |
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