I dialoghi ridotti all’essenziale sembrano trasmettere l’idea della vacuità della parola, di contro l’immagine estetica viene portata alle estreme conseguenze, si condensa e subito dopo si fa evanescente; è immagine e metafora, e solo le scene più drammatiche e violente sembrano ricondurci alla realtà.
"L'isola" è un film enigmatico, duro come la faccia chiusa a pugno del protagonista che quasi senza mai parlare e con un limitato repertorio di espressioni dà vita ad un interpretazione di rara intensità. Un film nuovo, se non nello stile, almeno nell’universo e nell’immaginario che il giovane regista Kim Ki-duk (anche autore delle scenografie) riesce a ricreare. Un mondo unico e totalizzante, quello che viene mostrato, in cui la sopravvivenza, i bisogni umani e, soprattutto, l’amore tra un uomo e una donna, si riducono ad uno stadio embrionale e primitivo. Una metafora amara della solitudine dell’uomo contemporaneo al quale sembrano non bastare i mezzi di comunicazione per esprimere quel desiderio di amore che risulta, in ultimo, essere forse un disperato tentativo di rifugio.
Se la narrazione a un certo punto si fa un pò confusa, la forza delle immagini è più eloquente che mai, giocata tutta sul confine labile tra la morte (il fondo dell’acqua), e un vivere che è più un sopravvivere, un galleggiare (la superficie). E quelle inquadrature poste proprio là, con una trovata efficace, a metà dei due mondi, sembrano metterci in guardia e in attesa di un possibile galleggiamento o di un più probabile sprofondamento.
La fine, non solo quella della finzione cinematografica, giunge attesa e invocata per ritrovare un senso, un appiglio… in realtà è la distruzione stessa delle nostre certezze.
In concorso per il Leone d’oro al festival di Venezia (2000). |