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A Roma, all'alba, quando tutti dormono, c'è un uomo che non dorme. Quell'uomo si chiama Giulio Andreotti. Non dorme perché deve lavorare, scrivere libri, fare vita mondana e, in ultima analisi, pregare. Pacato, sornione, imperscrutabile, Andreotti è il potere in Italia da quattro decenni. Agli inizi degli anni novanta, senza arroganza e senza umiltà, immobile e sussurrante, ambiguo e rassicurante, avanza inarrestabile verso il settimo mandato come Presidente del Consiglio. Alla soglia dei settant'anni, Andreotti è un gerontocrate che, equipaggiato come Dio, non teme nessuno e non sa cosa sia il timore reverenziale. |
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Giulio Andreotti, con i suoi sette mandati da Presidente del Consiglio, i suoi ministeri, la sua carica a vita di senatore, è il divo. Il “divo Giulio”, come lo ha ribattezzato per primo il giornalista Mino Pecorelli, è al potere da quando esiste la Repubblica. Immobile.
Il film di Paolo Sorrentino si apre con una citazione che sembra un avvertimento: se non potete parlare bene di una persona, non parlatene. Sorrentino parla di Andreotti, e non ne parla bene. Ma sono in pochi ad aver fatto il contrario negli ultimi 60 anni, salvo esprimere la propria indignazione alla condanna a 24 anni per l’omicidio Pecorelli, annullata dalla Cassazione con gran sollievo del mondo politico, dimentico della divisione dei poteri e dell’autonomia di cui quello giudiziario dovrebbe godere ma che in molti preferirebbero eliminare. Nella reazione del Paese e dei suoi rappresentanti, c’è tutto il senso della figura di Andreotti: buono o cattivo, simpatico o antipatico, Andreotti è l’Italia e l’Italia si rifiuta di guardarsi in uno specchio che le dica “colpevole”.
Andreotti è il divo, immobile, di decenni di immobilismo democristiano, che hanno visto la morte di Aldo Moro, la crescita del potere della P2, omicidi, finti suicidi, stragi. Andreotti è rimasto in alto per tutto il tempo, senza essere sfiorato nemmeno da Tangentopoli. Dice bene il sottotitolo del film, “la spettacolare vita di Giulio Andreotti”. Per tutta la prima parte del film, davvero splendida, la marcata impronta stilistica di Sorrentino e le musiche rock gestite da Teho Teardo fanno da contrappunto ai movimenti lenti del divo, ai suoi silenzi, al suo fingere di non essere protagonista, preferendo giocare con le parole, lasciando volutamente in una grande ambiguità quelli che sono i retroscena, su quella che è la verità. Andreotti viene delineato con una precisione, una meticolosità della quale non si deve render merito soltanto al regista, ma soprattutto ad uno straordinario Toni Servillo, la cui somiglianza nei primi minuti è impressionante. L’espressione del viso, la postura, la camminata, la flemma, oltre ovviamente alla gobba ed alle orecchie: tutto corrisponde all’originale, e il discorso, con minor precisione, vale anche per tutti gli altri interpreti, anche per quelli – come Paolo Graziosi (Aldo Moro) – per i quali non si è puntato su una rassomiglianza fisica perfetta.
Nell’aprile del ’91 Andreotti costituisce il settimo gabinetto da lui presieduto, ultimo passo prima della probabile elezione a Presidente della Repubblica; dopo meno di due anni il panorama è capovolto, con l’esplosione di Tangentopoli e la strage di Capaci, l’elezione di Oscar Luigi Scalfaro e l’arresto di Totò Riina. Andreotti non è più in alto, ma non accetta nemmeno di crollare: le dichiarazioni dei pentiti non bastano, in tribunale non verrà riconosciuta l’associazione mafiosa, discorso diverso per quella a delinquere, per la quale è sopravvenuta la prescrizione. In questa seconda parte il divo è come preda degli eventi, non è più necessaria l’assistenza del regista perché la trama evolve autonomamente, il crollo generale (D.C., corrente andreottiana, boss di Cosa Nostra) che sembrava preludere al crollo più rumoroso detta il ritmo della narrazione; al centro, lo stesso uomo di dieci anni prima, di venti anni prima, di cinquanta anni prima. Il divo.
Vincitore del Premio della Giuria al 61° Festival di Cannes. |
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Commenti del pubblico |
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