Michael Mann sceglie un romanzo di Thomas Harris, “Red Dragon” (tradotto “Il delitto della terza luna”), per il suo quarto film, il primo successo pieno.
I primi cinque minuti sono un esercizio di stile, con la macchina da presa che gira lentamente intorno ai personaggi, improvvise aperture grandiose su cielo e mare, giochi di luce nel contrasto chiaro-scuro con le figure spesso riprese di spalle controluce e mai la stessa inquadratura.
I protagonisti del film sono due, ma ad essere inquadrato è uno solo: Will Graham, detective che ha lasciato l’FBI per i ‘postumi’ dell’ultimo caso. L’altro protagonista, per l’appunto, è costituito da questi postumi: non più il dottor Lecter, non ancora ‘dente di fata’ Dollarhyde, ma Will Graham stesso con la sua coscienza di ciò che è successo tre anni prima e il dubbio che possa nuovamente accadere.
Se i criminali rimangono due, le menti criminali sono tre: Will riesce a pensare come loro e a volte è assalito dagli stessi pensieri. Il parallelo tra il detective e il maniaco, tra buono e cattivo è manifesto quando Will entra nella villa dove è stato compiuta la seconda strage: la sequenza in cui sale le scale è la stessa iniziale, in cui a salirle era l’assassino, con in più le tracce di sangue sulla moquette. Il confronto diviene subito scontro, nel monologo di Will contro il videotape, come se fosse faccia a faccia con ‘dente di fata’. Ciò che manca, in questo duello a distanza, è il contatto diretto, la sfida e l’accanimento che nascono dal fascino che potrebbero esercitare l’uno sull’altro. Questo aspetto è lasciato al precedente maniaco, ormai inoffensivo, ed emerge nella sua drammaticità dopo il colloquio tra i due nella prigione: troviamo Will già dentro, come se l’incontro fosse una delle tappe della sua indagine; invece si rivela fondamentale, ai fini della narrazione, per far emergere la personalità del detective, per far barcollare la sicurezza che era riuscito ad infondersi in anni di inattività. E, barcollando, Will lascia il carcere: questa volta il regista lo segue, accompagnato dalla musica, lungo tutto il percorso tra le mura bianche che, nonostante la corsa, sembra non finiscano mai. Uscito all’aria aperta, Will si ferma per riprendere, oltre al fiato, la padronanza di se stesso.
Se le turbe di Will riguardino soltanto lui, o siano invece emblema di una comunione naturale tra assassino e poliziotto (stretta derivata di quella tra preda e predatore), non è chiaro: la prima tesi è nell’autocontrollo che Will riesce ad imporsi, ma l’istinto tende innegabilmente verso la seconda, sostenuta dalle parole di Lecter – uccidere è ciò che avvicina l’uomo a Dio.
Senza spingere a fondo per quel che riguarda un eventuale messaggio, Mann dà il meglio di sé dietro la macchina da presa, con qualche eccesso (quando si avvicina lentamente a Molly che dorme, senza alcun motivo) e molte sequenze da manuale; nella versione italiana è stata tagliata una scena molto intensa tra Will e la moglie, che culmina in un abbraccio mentre il fuoco si sposta lentamente dai loro corpi al panorama notturno della città: secondaria ai fini della narrazione, rimane comunque un tocco di maestria che è un peccato non poter ammirare.
Quanto ai protagonisti, la prova di William Petersen è da sottolieare; Brian Cox dà per primo un volto al dottor Lecter, ma verrà presto dimenticato quando Anthony Hopkins si impossesserà del personaggio conservandone il ruolo in tutti i remake o film sceneggiati da Thomas Harris partendo da “Red Dragon”. Il co-protagonista, nonostante la personalità di Lecter, rimane il maniaco di Tom Nooman, senza dubbio quello meglio disegnato in riferimento alla stessa cerchia di film: mentre Lecter mantiene il suo ruolo tutto il tempo, e Will lotta, con successo, per rimanere se stesso, ‘dente di fata’, nel momento della morte, è l’unico a completare la sua trasformazione: la larva è morta, e le sono spuntate due ali di sangue da farfalla. |