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Abbandonato davanti a una villa, un neonato viene trovato da un vagabondo, che lo porta con sé e gli fa da padre. Cinque anni dopo, un medico scopre che quel ragazzino è un trovatello e si rivolge ad un orfanotrofio per farlo passare in ‘mani migliori’. Mentre i due, l’uomo e il bambino, fuggono per non essere separati, torna in scena la madre, che nel frattempo è diventata ricca e famosa. |
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Un film con un sorriso – e forse, una lacrima
Il primo lungometraggio di Charlie Chaplin si apre con una dichiarazione che si rivela una perfetta sintesi della sua commistione di comico e drammatico. Abbandonando le marcette, che spezzano l’azione al ritmo delle gag, Chaplin affida il sorriso e la lacrima allo stesso tema musicale, senza permettere che le molte scene esilaranti interrompano la drammaticità dell’azione.
Il prologo, cupo e doloroso, fa sì che l’ingresso in scena di Charlot sia vissuto dallo spettatore come una liberazione dall’atmosfera triste che aveva fin lì avvolto il film. Da questo momento il punto di vista sulla storia (e sul mondo) non sarà più esterno, ma sarà quello del vagabondo, individuo al di fuori degli schemi sociali per antonomasia e del quale Chaplin si serve per le sue critiche.
Vagabondo e orfanello si completano, prendendosi cura l’uno dell’altro (splendida la scena in cui il bambino prepara la colazione); attorno a loro, ognuno ha un ruolo che segue pedissequamente, senza lasciare spazio alla fantasia o ai sentimenti. Il medico, chiamato a curare il bambino, si rivolge all’orfanotrofio convinto che solo lì possa godere delle attenzioni appropriate. La lotta tra il direttore e Charlot vede il tentativo di conquista di un oggetto da una parte, la difesa di un figlio dall’altra. Ma è nei personaggi chiave che Chaplin allarga il ventaglio della sua critica: il poliziotto, come in tutti i suoi film futuri, è un ostacolo in ogni situazione, fino ad essere utilizzato nel finale sfruttando ironicamente proprio il suo ruolo negativo. Nei confronti della madre, che alla fine ritroverà il figlio abbandonato, non ci va meno leggero: dopo il misfatto ha fatto carriera, diventando ricca e famosa, salvo ricordarsi del figlio quando, cinque anni dopo, se ne trova un altro tra le braccia; a poco servono le belle qualità di cui fa mostra, il giudizio chapliniano è intrinsecamente negativo.
Ma un’alternativa, a questa società imperfetta, non si trova: nel sogno di Charlot gli uomini hanno tutti l’animo di un bambino, ma non sono immuni alla corruzione e questo slancio utopistico si conclude tragicamente. Non rimane che adattarsi alla società, ma senza convinzione: per questo il finale è tirato via, consumato in pochi secondi, l’esatto contrario di quanto farà quindici anni dopo in Tempi Moderni, nel finale allontanamento da una società nemica.
Al di là degli intenti sociali, quest’opera come poche, anche grazie alla sua breve durata, riesce a vivere interamente della propria poesia: per il gioco della teiera sulla culla, per il bambino che cresce mostrando gli stessi tic di Charlot, per il suo sguardo quando viene portato via, l’immagine rende vana ogni parola. |