Sogna mai ad occhi aperti? Io sì.
Non solo Hanna, ma tutti quanti, dal barbiere-Charlot al dittatore, e più di tutti il regista, sognano. Chaplin dà forma a questo sogno rappresentando il ‘grande sonno’ europeo, il periodo di messa al bando della libertà e non solo di quella (ma siamo nel 1940, e l’abominio nazista non è ancora palese).
Attraverso il sogno del dittatore tomanico – la conquista del mondo – Chaplin chiede la parola: ha deciso di parlare di schiavitù e libertà, di disperazione e speranza. Lo fa con tutta la maestria di quasi trent’anni di comicità, servendosi del suo sognatore: uno Charlot estraneo (come al solito) al suo tempo, anche se si parla di un tempo al quale non è possibile sottrarsi e c’è bisogno, per giustificarlo, di ricorrere a un’amnesia. Ma la sua ‘voce’, udita una sola volta nel finale di Tempi Moderni, non può che essere in linea col personaggio: nel momento in cui il barbiere ebreo inizia il suo accorato appello, scompare (per sempre) Charlot.
Un uscita di scena in grande stile, davanti a milioni di spettatori: la sua ultima caduta dalla sedia, l’ultima indefinibile camminata arrivano al termine di un parallelo ardito e memorabile. Chaplin-Charlot e Hitler-Hynkel, con una condanna a priori (la didascalia iniziale) ed una a posteriori (quasi un pentimento, stando alle parole del regista), ma lungo la strada una miriade di trovate più o meno geniali e sempre divertenti. L’enorme proiettile che gira su se stesso è una dichiarazione d’intenti, cui seguono giochi di citazioni storpiate e gag in vecchio stile, con la divisa di Herring privata delle medaglie e dei bottoni o intermezzi non-sense quali i test delle invenzioni.
Il culmine del comico è raggiunto con la visita del dittatore di Batalia Napaloni, due caricature a confronto col povero ‘Fui’ che ne subisce di tutti i colori prima di sbarazzarsi dell’alleato-rivale grazie al consiglio di Garbitsch, ministro della propaganda (la rappresentazione dei due scudieri di Hynkel meriterebbe un discorso a parte, ma tra i personaggi di contorno sono i più azzeccati).
Non solo risate, comunque, nel continuo riflettersi di barbiere e dittatore; tra le scene più forti, sia a livello di immagine che di significato, Hynkel che danza (con Wagner in sottofondo, scelta ponderata) giocando con la Terra, per l’occasione un enorme pallone: non appena esplode, il cambio di scena è istantaneo e, al ritmo della Danza ungherese n° 5 di Brahms, tocca al barbiere compiere le proprie evoluzioni.
Fin qui l’immagine, il gioco, l’allusione: dove non arrivano queste, o la musica, Chaplin si arma della parola: Hanna, guarda in alto. Ascoltate. Il finale non è cinema, è amore. |