Lo schema di "Le Iene" è quello classico di molti noir, utilizzato anche da Kubrick quando realizzava "Rapina a mano armata".
Otto personaggi che non si conoscono si uniscono per compiere una rapina; a causa del tradimento di uno di loro, questa fallisce. Segue processo sommario alla ricerca dell'ignoto traditore e, poiché com'è noto il delitto non paga, bagno di sangue (redentore?) finale.
S'inizia scherzando, con una sorta di ultima cena in un ristorante durante la quale i personaggi si presentano, discutendo su Madonna e sull'opportunità di lasciare delle mance ai camerieri: la parola s'installa, impone la propria legge e detterà il proprio ritmo a tutto il film, anticipando l'immagine.
Il film può allora iniziare, "dopo" la rapina, quando i giochi sono ormai fatti: entrando violentemente nel pieno di un'azione dipinta con un formidabile realismo (Keitel in fuga verso il nascondiglio, un complice agonizzante sul sedile posteriore dell'auto).
È un modo, non più verbale ma sceneggiato, di anticipare gli avvenimenti, di giocare su quello che gli spettatori conoscono ma i personaggi ignorano, di respingere verso la riflessione uno spettatore attratto dalla descrizione crudamente realistica.
Giungiamo in una sorta d'hangar, il nascondiglio nel quale i diversi autori della rapina si ritrovano. Da quel luogo non usciremo più: se non per un seguito di flash-back che ci spiegheranno la genesi della situazione.
La grande forza di "Le Iene" è di aver concentrato, come in un contenitore che si appresta ad esplodere, così tanta violenza in un luogo così chiuso, così inesorabilmente precluso ad ogni possibilità di fuga, e quindi di compromesso.
Le tensioni più violente, gli interrogativi più brucianti non hanno allora che una sola possibilità di scampo: quella di sgorgare dagli squarci imposti dalla struttura voluta dall'autore.
In una perfetta, meravigliosa circolarità, ecco allora svolgersi a ritroso, come in una pellicola che riavvolgiamo sul rullo, non soltanto l'ordine degli avvenimenti che rimarranno inesplicabili, ma l'origine dei dubbi, la ragione delle ambiguità, le fonti del Male.
Chiudersi sui destini dei personaggi, aprirsi sulle ipotesi delle cause: l'estrema violenza della pellicola si avvolge su se stessa come in un rito antico.
Il male genera il male: nel cinema di Quentin Tarantino c'è l'humour che affiora quando tutto bagna nel grottesco della tragedia, il virtuosismo delle riprese e del montaggio, la direzione impeccabile degli attori.
Un buco (nero?), ma dal quale è nata una stella.
Presentato al Festival di Cannes, Locarno, Viareggio (1992). |
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