De la musique avant toute chose.
Exils, esilî, è il viaggio di due ragazzi francesi, Zano (Romain Duris) e Naima (Lubna Azabal), verso l’Algeria alla riscoperta delle proprie origini; un viaggio del quale la musica è motore ed itinerario, punto di partenza e d’arrivo.
Lasciata Parigi più per gioco, o per noia, che per convinzione, i due attraversano l’Europa sud-occidentale fino all’Andalusia, dove si fermano a lungo prima di salire, clandestini, su una nave che li porta in Marocco; superata non senze difficoltà la frontiera, arrivano finalmente ad Algeri: in una città devastata dal terremoto, dalla quale la gente fugge in direzione d’un futuro, Zano ritrova il proprio passato in quella che era stata la casa dei suoi genitori, Naima il proprio spirito nell’accettazione delle proprie radici.
L’ultimo film di Tony Gatlif è ancora un’opera fortemente autobiografica: riprendendo i temi della diversità delle culture e della tolleranza, replica la forma del suo precedente Vengo – Demone flamenco (2000), nel quale fulcro della storia era la musica; soltanto con una lettura di auto-citazionismo si spiegano la sosta, inutile ai fini del viaggio, in Andalusia e, in particolare, la lunga sequenza nel locale sivigliano dove Naima tradisce Zano.
La musica è il filo conduttore tanto del film quanto del viaggio, accompagna ed al contempo determina scelte e reazioni sia dei personaggi che degli spettatori; di rado lascia spazio al dialogo e all’azione, ma li affianca e li sovrasta. Per Zano è religione, per Naima è il ‘luogo’ nel quale sentirsi a casa, lei, che ha cancellato le proprie radici alla ricerca dell’integrazione e della benevolenza altrui. Nel personaggio di Naima si rispecchiano le idee del regista, per il quale la musica rappresenta il principale bagaglio di chi lascia la propria terra e il primo punto d’incontro tra differenti culture quando queste entrano in contatto.
Per il resto il film, premiato per la regia a Cannes nel 2004, si regge su pochi spunti narrativi e qualche virtuosismo di troppo (Zano che seppellisce il violino è un’altra citazione del regista dal suo Gadjo Dilo, del 1998), ma alcune scene sono eccezionali, prima fra tutte quella in cui i due protagonisti procedono controcorrente nel fiume di profughi, un incrociarsi del loro viaggio a ritroso con quello che i loro genitori avevano compiuto anni prima.
La meta consapevole del viaggio è raggiunta in un’altra scena topica, nella casa algerina che è stata della famiglia di lui: in un ambiente familiare, con ancora le foto dei parenti sulle pareti, Zano si scioglie in lacrime tra le braccia dei nuovi, sconosciuti inquilini, nel ricordo dei genitori nel frattempo morti. Anche la musica s’arresta, lasciando spazio all’emozione di un intimità tra estranei che richiama fortemente quella del Viaggio all’inizio del mondo di de Oliveira; musica che torna ad imporsi nella sequenza più lunga del film, nella quale Naima purifica il proprio ‘spirito malato’ lanciandosi in una danza “trance” che vorrebbe essere coinvolgente, ma non convince nei suoi oltre cinque minuti di durata. La catarsi di Naima segna il raggiungimento dell’inaspettata meta del suo percorso, coincidente ma diverso nelle motivazioni da quello del ragazzo: nell’accettazione della proprio passato si libera dalla sofferenza nata con l’iniziale rifiuto di esso.
Sono dunque tre i viaggi descritti: quello di Naima, che non riesce ad esternare il proprio Io, soffocato dal senso d’estraneità di tutto ciò che la circonda; quello della famiglia di Zano, e del regista stesso, esodo prima, ritorno poi alla ricerca della propria origine; quello della musica, infine, anch’essa a ritroso, dalla techno metropolitana al flamenco, alle melodie gitane e magrebine, per finire alla “trance” come esempio di musica dal gusto antico e pagano, dalla quale s’è evoluta nei secoli nelle numerose forme proprie d’ogni cultura.
De la musique encore et toujours! |