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Il bisogno di scrivere si configura precocemente in Ejzenštejn, che già nel 1917-1918 annotava in quaderni e su foglietti improvvisati ogni sorta di riflessione. Sulla soglia dei cinquant’anni, mettendo mano al racconto della propria esistenza, egli notava come per tutta la vita, nel suo lavoro, si fosse occupato di opere a thése dimostrando, spiegando, insegnando. Letture e stralci di vita vissuta s’intrecciano in queste pagine; Dumas e Hugo, Zola e Balzac si profilano nelle sale borghesi della casa paterna, Maeterlinck e Schopenhauer si stagliano sullo sfondo della guerra civile, le città d’Europa e d’America sono evocate ora attraverso incontri fortuiti con artisti di fama, da Pirandello a Cocteau, da Zweig a Joyce, ora tramite associazioni libere con temi ed eventi storici legati a luoghi visitati. Così la propria vita «sfreccia nella memoria come un film con dei vuoti, dei pezzi spariti, con scene incollate in modo sconnesso, come un film la cui “idoneità alla distribuzione” sia pari al 35%». Eppure lo scrittore Ejzenštejn non ci ha mai parlato in modo così chiaro. Nei suoi intenti c’era l’idea di afferrare immagini di quella vita che spesso percorriamo al galoppo, senza guardarci intorno, come un trasbordo dopo l’altro, e dalla quale, come dal finestrino di un treno, sfrecciano via frammenti d’infanzia, pezzi di gioventù, scampoli di maturità. |
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