Cinema del Silenzio - Rivista di Cinema

Darren Aronofsky La tesi e il corpo filmico

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a cura di Andrea Olivieri
Un fantasy metafisico per accedere al segreto della vita eterna. Una love-story assoluta che parte dal 1.500 e arriva al futuro, passando per il presente. È quanto accade a "The Fountain", terzo lungometraggio del newyorkese Darren Aronofsky. Il viaggio attraverso i secoli si alterna freneticamente, da un futuro incerto a una Spagna ai tempi dell'Inquisizione. La fontana che dà il titolo al film è l'albero della vita, che disperatamente il protagonista maschile cerca di trovare per salvare la donna che ama.
Ci sono voluti cinque anni al regista per dare alla luce la sua nuova creazione. Sul piano temporale, la vicenda inizia nel diciassettesimo secolo e ha come protagonista un conquistatore alla ricerca dell'immortalità, che successivamente vediamo nei panni di uno scienziato ai giorni nostri, e infine, è un astronauta del ventiseiesimo secolo.
Aronofsky è un esploratore. Le sue terre - esperienze oltre la sperimentazione - non sono un luogo geografico, ma l'archetipo remoto del 'work in progress' tra i più radicali ed estremi; strumenti materiali, meccanici, ai confini della coscienza per una 'nuova' umanità. Una paradossale logicità caotica, un anello narrativo con il quale il cineasta amplifica aspetti comuni nella costruzione di un film: l’oscurità, ad esempio, o il suono de-costruttore, o ancora l’immobilità - spazi metaforici -, un mettere in immagini un mondo (quello folle e inquietante) per produrre un'alterazione nella coscienza dello spettatore; il cinema di Aronofsky ritrova il calore della materia pulsante. Ritrova il destino 'finale' di un corpo che non necessita più della sua sostanza per praticare la sua fisicità: dai bozzoli di parallelismi tra mente umana e computer di "Pi greco" alle affinità sotto il 'guscio' impossibili da normalizzare di "Requiem for a dream", passando per le visionarie sequenze di "The Fountain - L’albero della vita", il corpo diviene sempre di più l'evanescenza di un desiderio immateriale prima del quale, oltre il quale Aronofsky pensa la sua realtà contrassegnata dalla perdita di un centro, da protagonisti dissociati che hanno smarrito le loro proverbiali coordinate esistenziali.
Così dopo aver stabilito un rapporto fra il corpo e la macchina, la realtà virtuale entra nel corpo e ne determina i percorsi mentali. L’assunto ideologico è chiaro: la realtà artificiale non ha più bisogno di una macchina per entrare in funzione.
L’originalità di Darren consiste perciò nella sfumatura ossessiva e paranoica che scandisce il ritmo; un’esperienza paranoica dove ordine e caos si sfiorano. Paure, insicurezze, dolori fisici e psicologici, timore dell’ignoto e terrore del reale: tutti elementi (l’incarnazione impressa su celluloide) di cui però il cineasta fa un uso inconsueto, dilatando i momenti di buio totale, facendo eccedere il suono in alcune inquadrature, soffermandosi in modo inquietante sulla calma assoluta (elogio della falsità/dissoluzione personale).