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Recensione: L'isola di ferro

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L'isola di ferro
titolo originale Jazireh Ahani
nazione Iran
anno 2005
regia Mohammad Rasoulof
genere Drammatico
durata 90 min.
distribuzione Lucky Red Distribuzione
cast A. NasirianH. Farzi-ZadehN. Pakdama
sceneggiatura M. Rasoulof
musiche M. Aligholi
fotografia R. Jalali
montaggio B. Dehghan
uscita nelle sale 16 Giugno 2006
media voti redazione
L'isola di ferro Trama del film
Una piccola comunità composta da uomini, donne e bambini, arriva sulle coste meridionali dell'Iran. Sono estremamente poveri, non hanno mezzi di sussistenza, né una casa a cui tornare. Disperati, si insediano su un cargo abbandonato in mare aperto. Il loro capo, il capitano Nemat, cerca di convincere il proprietario dell'imbarcazione e le autorità a non riportare il cargo a terra. L'uomo, che sembra lottare per i suoi compagni, in realtà sta smontando e vendendo pezzo dopo pezzo parti in ferro della barca. Il cargo, inevitabilmente, sta per colare a picco insieme alle speranze e alla fiducia di quanti hanno creduto in Nemat.
Recensione “L'isola di ferro”
a cura di Francesco Alfani  (voto: 6)
Al suo secondo film l’iraniano Mohammad Rasoulof sceglie il “racconto breve” (la pellicola dura poco più di 80’), centrato sulla singolare vicenda di una comunità che ha deciso di abitare un’enorme nave cargo abbandonata lungo le coste persiane. Lo spunto, di cronaca, serve per una narrazione anch’essa lineare, da resoconto, della vita sulla nave, con le sue dinamiche e le sue gerarchie, i suoi ritmi scanditi dal volere del capitano Nemat. Dall’altro lato, è nella descrizione dei protagonisti che Rasoulof concentra lo sforzo simbolico-artistico: in particolare nel rapporto tormentato tra il capitano e suo figlio adottivo Ahmad, tra, da una parte, la severa guida della comunità, custode della legge e dei precetti islamici, e dall’altra il giovane ribelle al comando e agli obblighi dottrinari. Accanto a loro due a e questa anche troppo risaputa contrapposizione, altri personaggi articolano minimamente il quadro (il saggio maestro elementare, sicuramente) ma non sottraggono ad una sostanziale sensazione di noia. Ci sono qua e là scatti più vibranti, in particolare il non brutto finale, ma in generale il racconto procede con qualche fatica, e anche la storia d’amore di Ahmad non è affatto coinvolgente. Il regista, che afferma di aver voluto rappresentare fedelmente una realtà vista con i suoi occhi, si affida forse troppo alla forza propria dell’indubbiamente affascinante “set” del film (l’enorme nave grigia e rossa per la ruggine in mezzo a un mare di un azzurro insolitamente intenso) e non cerca di costruirvi sopra qualcos’altro. Non è male, ad ogni modo, la rappresentazione dell’odiosità del potere (e, va detto, della incredibile misoginia della religione islamica), incarnata dal violento ed ambiguo capitano Nemat, un vecchio uomo che si rivolta invano contro la fine che si approssima e contro il giovane Ahmad che va sbocciando là dove egli va appassendo esercitando un folle e brutale potere di vita e di morte. E non è nemmeno male, sempre all’interno di questa palese chiave interpretativa, la figura del “pesce-bambino” che cattura i pesci nella stiva allagata della petroliera ma solo per liberarli nel mare aperto, contravvenendo saggiamente al consiglio di Nemat (“Perché li catturi? Poveri pesci… lasciali liberi, poi quando ingrasseranno li prenderemo e li mangeremo”). Quando gli sfugge, tiriamo tutti un sospiro di sollievo.
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