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Incorniciata tra le Alpi, molto vicina alla piccola cittadina di Grenoble, c'è la Grande Chartreuse, il più antico monastero dell'ordine dei Certosini. Lì, protetti dalle mura antiche e dal silenzio del luogo, vivono uomini che hanno scelto nella loro vita di amare Dio e di ascoltarne la Parola nel rumore del vento e della pioggia e di vederne l'immagine nello scorrere delle stagioni, misurando lo scorrere del tempo con i rintocchi della campana e il suono delle proprie preghiere. Il regista Philip Gröning, dopo aver atteso per 18 anni, è riuscito ad ottenere il permesso di entrare nella clausura e filmare per sei mesi la quotidianità della vita monastica, portando con sé solo lo stretto necessario, senza luci artificiali e senza altra colonna sonora che i rumori d'ambiente e i canti gregoriani intonati dai monaci. |
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“Fammi la faccia di uno che ha capito Dio, il mondo” “Ok, ci provo. Così?” “Perfetto”
Tra cielo e terra, sospesa nel tempo che non scorre, ma gira eternamente su se stesso, la Grande Certosa domina tutto, dagli alberi sui monti circostanti alla neve che la ricopre, dal vento ed ogni suono o rumore che porta con sé fino ai suoi stessi abitanti, destinati a passare, a sovrapporsi come fossero stagioni al cospetto di un’eternità immota.
La parola vacilla, fino a fermarsi alle porte del monastero, disperdendosi nei significati terreni di una natura che la spazza via: rimangono il vento sotto i portici, le fronde degli alberi scossi, i piccoli e i grandi salti di un fiume, il volo di una mosca, i passi lenti dei monaci e quelli più decisi dei tori.
I monaci, appunto, la Regola, il monastero, la natura, Dio: e sopra tutti, in nome di tutti, il grande silenzio.
L’eco di questo silenzio si dilata tra i muri della certosa, nelle teste dei monaci, nell’occhio della cinepresa: comunica se stesso, con certezza. Forse, tutto il resto.
Ma l’immagine di questo silenzio è meno nitida del suo stesso significare, il buio del luogo si avvinghia alla pellicola e la sgrana, amplificando il senso di indefinitezza dello spazio oltre che del tempo. Un fotografia così carente è al servizio, invece, di un soggetto che in ogni momento sembra dire “sono importante”, senza andare al di là di questa rivelazione.
Al centro della scena non c’è più il monastero ma lui, il regista, che sviluppa la sua tesi precostituita e gira ogni scena su un tracciato ideologico: non è lì per assistere, per documentare, ma per ricoprire d’una profonda, intangibile veste silente la sua parola, una parola che non chiede ma afferma.
Di fronte a persone che hanno sentito il bisogno di questo silenzio, che abbiano o meno gli stessi sentimenti, come prescritto, Gröning porta i suoi, quasi ci fosse veramente un enigma da risolvere.
Il silenzio del luogo millenario si fa penetrare, nella speranza di tornare a chiudersi nella propria indagine, un’indagine fuori della portata d’una telecamera, d’un regista, di uno spettatore, di un monaco. Nell’affermare, Gröning nega. La morte, che tenta alla fine di esorcizzare, è nel vento, nel terremoto, nel fuoco, nella neve, nel monastero. Nell’uomo, che alla perpetua ricerca di Dio, trova conforto in una comunicazione distorta. |