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Noto in tutto il mondo per la trilogia di "Heimat" (1984. 1992, 2004) il film più lungo della storia del cinema, Edgar Reitz (1932) non è solamente l’autore di una delle opere d’arte più importanti del ‘900, è anche un regista di straordinaria complessità e ricchezza con un lungo e articolato percorso intellettuale alle spalle.
Formatosi nei tardi anni ’50 a Monaco, l’autentica capitale cinematografica tedesca, Reitz fu uno dei 26 firmatari del manifesto di Oberhausen, atto di fondazione del Giovane Cinema Tedesco che volle fare piazza pulita con il cinema posticcio e colluso della generazione precedente.
Prima di fare il grande salto verso il lungometraggio (con Pasti, premio opera prima alla Mostra di Venezia del 1967) si dedicò ad elaboratissimi cortometraggi sperimentali a tema, come "Comunicazione" (1961) e "Velocità" (1963). Sospeso fra futuribili utopie cinematografiche e un lento ritorno ad una drammaturgia più tradizionale, Reitz girò poi negli anni ’70 film che soltanto adesso il pubblico tedesco sta riscoprendo, quali "Il viaggio a Vienna" (1973), "Ora zero" (1976), "Il sarto di Ulm" (1978).
Corredato da un ricco apparato iconografico, il volume di Matteo Galli, prima monografia a livello mondiale dedicata all’intera opera di Reitz, ricostruisce, nella prima parte, l’itinerario artistico del regista tedesco, contestualizzandone l’opera giovanile sia all’interno della cultura artistica e letteraria tedesca del dopoguerra che nel più ampio novero delle nouvelles vagues europee.
La seconda parte del volume verte sull’intera trilogia di Heimat, analizzata in tutte le sue articolazioni, affresco epico che racconta dall’osservatorio periferico e residuale di Schabbach la drammatica storia tedesca del ‘900 (Heimat 1), storia di una generazione di artisti d’avanguardia cólti e appassionati (Heimat 2) e impossibile sintesi di arte e natura sullo sfondo della riunificazione tedesca (Heimat 3). |
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