Come un'auto impantanata nella sabbia con l'alta marea che incombe, così non c'è via d'uscita in questo giallo apparentemente paradossale che con il passare dei minuti rivela tutta la sua forza "morale". Il regista sceglie il genere e il mistero per mettere a nudo la terribile oppressione delle convenzioni sociali e culturali che hanno il sopravvento nelle relazioni tra uomini, sempre carnefici anche quando sono vittime e le donne sempre vittime e sopraffatte anche quando vogliono dettare le regole e sovvertire gli schemi. Tocco da maestro.

Malgrado la regia e la fotografia siano di indubbio valore il problema vero di questo film è la trama. Si è sempre lì a chiedersi quando succederà qualcosa finché il film finisce in modo inaspettato e sinceramente banale. Una mezza delusione anche per i talenti sprecati di Lili Tyler e James Franco.

Ryan Murphy mette insieme una serie impressionante di stereotipi mostrando leggerezza e ignoranza strafottenti. Il capitolo dedicato all'Italia è di una banalità quasi criminosa e del tutto involontariamente chiama in causa la Grande Abbuffata (prosciutto e melone e amatriciana mangiati insieme) mentre Julia Roberts sembra mia nonna. Un film da non far vedere a nessuno soprattutto ai bambini...

Sarebbe stato più appropriato per Cronenberg concentrarsi sull'interessante "deriva" di Jung verso il misticismo e il paranormale, peraltro uno dei motivi dei dissidi tra lo psicoanalista svizzero e il maestro Freud, piuttosto che ripercorrere fedelmente gli anni di conversazioni e elucubrazioni che coinvolsero anche Sabine Spielrein e Otto Gross. Ne avrebbe giovato il film che invece risulta troppo rigoroso e biografico e che aldilà dell'interpretazione impeccabile degli attori smuove poco lo spettatore.

Nel posto giusto al momento giusto. Questo è Clerks un cult movie che fotografa incredibilmente bene una generazione (X), quella dei '90. Umorismo nero, trovate surreali e l'apoteosi del cazzeggio per un film geniale pieno di idee brillanti e figlio dell'arte cinematografica per eccellenza quella che non si preoccupa dei mezzi ma appunto dei contenuti. Kevin Smith ci sta marciando ancora oggi. Da vedere e rivedere con un po' di nostalgia.

Non è chiaro se ci si trovi di fronte ad una biografia, un musical o un dramma. Forse dopo 2:15 è proprio questa la pecca più grande di Jersey Boys. Assolutamente massacrato da un doppiaggio a dir poco ridicolo, si barcamena tra il biopic quasi agiografico e a tratti noiosissimo nella prima parte e il melodramma bulimico della seconda parte. Ne risulta un calderone poco a fuoco nel quale anche le cose più interessanti come l'evoluzione dei personaggi, soprattutto il protagonista e Tommy Devito, si perdono inesorabilmente. Trattandosi di Clint la delusione ci sta tutta, considerando anche il fatto che i gusti musicali del regista sono sempre stati altri.

Paganini: una via di mezzo tra Jim Morrison e Scialpi. Così, in modo decisamente risibile viene presentata la figura storicamente importante del più grande violinista di tutti i tempi, virtuoso e geniale nella realtà, rockstar sballata e viziosa preceduta dalla propria fama in questa curiosa, a tratti detestabile biografia del regista inglese B.Rose. A fronte di una bellissima fotografia di Londra e non solo, e una regia visivamente apprezzabile il film si perde in una trama che sembra non trovare mai un bandolo e soprattutto un genere. Commedia? Tragedia? Musical? Insomma una mezza delusione con un cast poco convincente che si redime un poco nel finale.

Tra De Sica e Kiarostami il cinema dei Dardenne si propone come "universale" nell'affrontare tematiche che sono tipiche delle storie quotidiane, che ci circondano anche se in anfratti che spesso non conosciamo o preferiremmo non conoscere. Il dramma diventa normalità terribilmente ma, forse anche, piacevolmente. Perché alla fine l'essere umano è capace di adattarsi e difendersi da quasi tutto. Cyril, il protagonista, sembra un piccolo caterpillar che schiaccia e si fa schiacciare quasi senza batter ciglio mentre la vita continua e tutto scorre.

Fuochi d'artificio in pieno giorno per questo incredibile e geniale noir colorato di bianco dove si muore non solo di morte violenta ma anche di freddo. Un freddo fastidioso e penetrante che accompagna i personaggi soprattutto i due protagonisti nel loro percorso di disvelamento. Il poliziotto, apparentemente ottuso, solo e inutile che insegue con cocciutaggine e una disinvoltura degna del peggior Marlowe la verità sempre sfuggente di strani crimini seriali; la protagonista femminile silenziosa e fatale. Un film che cresce alla distanza oltre ogni immaginazione divertendosi a seminare citazioni con ironia e cognizione. In una parola: geniale.

Si potrebbe accettare tutto da un genio come Abel Ferrara, uno dei pochi spiriti liberi del cinema moderno; anche un'ora e venti di scene da un'apocalisse con chiamate a skype, liti furibonde e visite agli amici e un'ambinetazione che rimanda agli esordi di the driller killer. L'idea del film potrebbe anche essere interessante tra ecologismo e politica o antipolitica vendute al chilo da eminenze e non che scorrono sui canali della televisione via cavo. Potrebbe, perché alla fine va bene tutto ma se a mancare è proprio quella scintilla del genio, quella regia postmoderna quella capacità di sorprendere e colpire al cuore, allora no, forse non vale la pena.

Scorre lento, inquietante e torbido il thriller "psicologico" di Egoyan. La verità che gioca a nascondino è la vera protagonista di questa storia nella quale colpiscono ambientazione e recitazione passiva ma funzionale di due ottimi interpreti (Firth e Witherspoon). I titoli di coda che riportano alla realtà dei tre di memphis e di un incredibile e reale caso giudiziario tutt'ora in corso, tolgono allo spettatore il diritto di un finale "fittizio" di un film che si ha l'impressione risulti incompleto.

Claustrofobico e alienante il thriller di Antal eccelle per ambientazione e fotografia. Alcune scene esilaranti in odore di pulp soprattutto nella caratterizzazione dei personaggi principali: un gruppo di controllori "freak" della metropolitana di Budapest perdenti e scalcagnati. Le buone notizie però finiscono qui. Si perché la sceneggiatura è a dir poco deficitaria mentre la regia sembra incapace di legare tra loro scene che a volte sembrano vivere di vita propria. Piani sequenza eterni e inutili e colonna sonora a dir poco fastidiosa. Mezza delusione

Reduci da una violenza "bestiale" i cavalieri della tavola rotonda, sconfitti dal mito del graal sono alla resa dei conti. Il sacrificio dell'amore tra Lancillotto e Ginevra e il tradimento al mite Artu' vengono "cucinati" in poco più di 1h20 con una forma minimalista e distaccata dallo sguardo di Bresson. La terra e gli occhi dei cavalli oltre ai loro nitriti dicono di più di quanto non lo facciano gli attori la cui recitazione è didascalica. Simboli e miti raccontati da un maestro del cinema non alla sua opera migliore.

Vegono in mente i romanzi di Verne vedendo questa "favola" moderna tra il neoralista e il surrealista. Lo scenario più che drammatico della discarica fa da contorno a una storia pericolosamente in bilico tra il dramma appunto e l'avventura per ragazzi. Non sempre a fuoco con alcune cadute di stile e la presenza sprecata di Martin Sheen lascia campo e protagonismo soprattutto ai tre giovani protagonisti che risultano alla fine la cosa migliore del film.

La grande pecca di questo film è che alla fine i due Robert si prendono la scena su tutto, sia sul resto del cast, poco sfruttato ma con attori notevoli, sia sulla storia che scorre via per tre quarti mentre inciampa ripetutamente nel finale, tirato in lungo a dismisura. C'erano le premesse soprattutto grazie al cast per un film migliore che alla fine pur restando piacevole e ben recitato risulta stucchevole sempre in bilico tra il melodramma e il thriller finisce per concedere troppo al primo e mancare clamorosamente il secondo. Peccato.

Cipri vira decisamente verso la commedia e porta all'estremo la recitazione sempre più machiettistica degli attori, Castellito al limite dello slapstick, e la fotografia, superba. La storia però è deboluccia e più funzionale al citazionismo (da Orson Welles a Sergio Leone) e malgrado qualche consueto colpo di genio (il fotografo) il film non è al livello del precedente (E stato il figlio)

Cipri mette in scena il dramma passando dal cinismo alla commedia con la consueta voglia di sorprendere alla cinico tv. Lo fa supportato da un'ottima fotografia una buona storia e la recitazione fuori dalle righe del sempre ottimo Toni Servillo. Tra personaggi irreali e geniali, come l'avvocato e i creditori si arriva all'epilogo come in una tragedia greca, o meglio della magna grecia...

Amara a tratti disturbante la ricostruzione in parte romanzata della biografia della propria famiglia fatta da V.B.Tedeschi che sceglie di dedicare a se stessa la parte più controversa. Bambina viziata, isterica e in piena crisi di mezz'età che assiste al disfacimento fisico (del fratello, il bravissimo Filippo Timi) e patrimoniale di una famiglia che vive in modo distaccato a tratti insopportabilmente altezzoso il contatto con la cruda realtà. A corollario la turbolenta relazione di coppia con L.Garrell. Film per nulla convincente nel quale si salva solo il sincero autolesionismo della protagonista nel mettersi a nudo.

Un'intensa e silenziosa Jasmine Trinca da il volto alla protagonista di questo film esistenzialista e mistico. Il racconto nasce da una fascinazione evidente per il Brasile e le realtà più estreme e contradditorie di un paese in via di sviluppo: dall'evangelizzazione del 21 secolo via cavo, all'umanesimo delle favelas la messa in scena quasi documentaristica è la cosa migliore del film. Augusta/Jasmine fugge dalla sua realtà per ritrovarsi in una realtà estrema ma poi sceglie di andarsene anche da li' perchè in fondo siamo tutti isole. La sceneggiatura sembra essere un po' traballante e alla fine finisce per lasciare troppi fili annodati.

Lamerica non c'è più nemmeno nell'immaginifico mondo di cartone delle tv via cavo e forse non è un caso che l'Albania torni seppure dalla finestra, in questo film di Amelio. Un film diciamolo subito importante ma forse non sempre messo a fuoco, diviso in due anche stilisticamente parlando. Una prima parte in cui Albanese prende la scena e rende omaggio alla figura dell'uomo perbene, onesto, solare, alla ricerca della felicità nelle piccole cose e ideologicamente legato all'idea di lavoro come concetto nobilitante dell'essere umano cosi come scritto tra le altre nella nostra Costituzione, un uomo mai di moda in generale meno nell'Italia di oggi! C'è anche un omaggio al cinema di Chaplin di Buster Keaton un cinema con i suoi tempi e ritmi. Nella seconda parte prende il sopravvento la crisi, qualcosa di nuovo e devastante nelle nuove generazioni e non è un caso che a rappresentarla siano due esordienti (Lucia e Ivo). Molte pecche è vero, ma in complesso un film da rivalutare.

Al ritmo di un videoclip Charlie corre per le strade di Bucarest alla ricerca di un sentimento puro che va contro ogni logica. Messaggio romantico al limite del melodrammatico in questo film girato strizzando l'occhio ad una fascia di pubblico chiaramente giovanile e zeppo di cliches da Americano in vacanza non si sa quanto voluti (ma il regista è svedese). A tratti noioso e prevedibile con un'interpretazione sottotono si redime appena appena nel finale adrenalinico.

Prende in giro e si prende in giro Kim Ki Duk in questo Moebius sicuramente al livello della fama del regista coreano ma sottotono dal punto di vista della storia. Una storia fallocentrica o orgasmocentrica che pur stupendo e colpendo con le consuete scene estreme e provocanti non regge il confronto con altre opere del passato per profondità di sguardo. La fotografia è probabilmente la cosa migliore di un film criticato e discusso ancor prima di essere stato visto

Disturbante come sempre, più che mai delirante, maledettamente politico. Il Kim Ki Duk di Indirizzo Sconosciuto parla di dopoguerra e di Corea con un approccio quasi storiografico nel quale si muovono i protagonisti di una tragedia che è un vortice di violenza e ineluttabilità. Destini segnati dalla guerra che non c'è, non si vede ma ha lasciato i suoi semi dando vita a frutti lacerati e bacati fin dal germoglio. Come sempre tre o quattro scene da urlo.

La guerra produce solo mostri che alcuni chiamano eroi. Non mi sento di giudicare il film di Eastwood, quasi inattaccabile formalmente parlando e che regala a Bradley Cooper la miglior prova della sua (breve) carriera, solo come un'esaltazione dell'orgoglio americano e del suo spirito piu' guerrafondaio. Per tutto il film assistiamo al distacco dalla realtà di un essere umano che cerca di trovare un senso e una giustificazione alla guerra soprattutto perchè questo è quello che gli hanno insegnato fin da bambino (patria. bandiera e libertà ecc...). Non colgo nello sguardo del regista, che rinuncia a rappresentare il nemico, la difesa a oltranza di questi "concetti/valori" ma anzi la messa in scena di una dissoluzione psicologica da parte di uno che ci crede davvero e che sulla sua strada trova distacco dalla realtà nella migliore delle ipotesi e depressione nella peggiore. Un inferno da cui non si esce vivi e che ti segue anche a casa com'è logico e ovvio.

Un videogioco più che un fumetto farcito di effetti speciali e immagini vivide. Un mega manga tra gozzilla e ufo robot, più probabilmente una parentesi necessaria al botteghino nella carriera ricca di visioni del regista messicano. La storia pero' è praticamente nulla.