Cinema del Silenzio - Rivista di Cinema

Sydney Pollack Sketckes of Sydney Pollack

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a cura di Glauco Almonte
Il talento è malessere liquefatto”.
“L’essenza di un artista, del suo lavoro, viene da un’insoddisfazione nei confronti dell’esistente, altrimenti non sentirebbe il bisogno di rimodellarlo. Bisogna riuscire a fare un uso creativo di ciò che provoca malessere; se questo malessere si liquefa arriva al cervello e stimola l’immaginazione, altrimenti, in chi non ha talento, si esprime in modo nevrotico”.

Sydney e il caso
C’è qualcosa di mortale nel sapere cosa farai esattamente ogni giorno della tua vita.
Sydnay Pollack inizia a conoscere il cinema da ragazzo, come attore a tempo perso. Ha un’età nella quale fare programmi è l’ultimo dei desideri, l’occupazione rappresenta un divertimento, un momento atto a prendere tempo per pensare, facendo intanto passare questo tempo.
Ad ogni modo Sydney studia recitazione: è assistente di Martha Graham (ed entusiasta di esserlo) quando, ventunenne, è ingaggiato da Frankenheimer per andare a Hollywood a formare dei giovani attori per “Il giardino della violenza”. Da un lato il giovane Pollack alle prese con il cast di Frankenheimer, dall’altra la star Burt Lancaster che, in quanto attore, dopo ogni scena va a chiedere il suo parere. E’ solo la prima di una serie di circostanze che Pollack si diverte a far passare per casuali, Frankenheimer che lo sceglie senza sapere cosa sappia fare è un dado che si ferma sul sei, Lancaster che s’interessa al punto da chiamarlo dopo le riprese per dirgli “tu dovresti fare il regista” e poi raccomandarlo a un impresario è un altro sei. Pollack finisce a fare uno stage a Hollywood per 75 dollari a settimana (“un errore enorme, non avevo capito che avrei potuto chiedere molto di più rispetto allo stipendio da insegnante che lasciavo”) e il dado si ferma nuovamente sul sei quando gli affidano la direzione degli ultimi episodi di una serie televisiva (un western) che stava andando male: tutto il tempo passato a guardare si accorge che non è servito a niente, il risultato non è buono ma viene apprezzata la direzione degli attori; avrà una seconda possibilità, dimostrando che dai propri errori si impara molto più velocemente.

Sydney spettatore
Siamo all’inizio degli anni ’60: Sydney è stregato dal cinema, dimentica il teatro, la recitazione, la danza; il suo interesse lo porta a nutrirsi di cinema, seguendo con pari interesse il cinema americano e quello europeo, con la Nouvelle Vague e molti italiani emergenti.
“Quando ero giovane il mio regista preferito era Elia Kazan, i suoi attori sono tutti fantastici, con lui hanno fatto sempre le cose migliori della loro carriera. Era un mago, aveva il segreto per creare una tensione palpabile sullo schermo”. Fin qui la magia, ma c’è chi va oltre: “Billy Wilder apparteneva a una specie diversa della razza umana”.

Sydney autore
La carriera di Pollack prende il volo, tra la fine degli anni ’60 e l’inizio dei ’70 gira “Non si uccidono così anche i cavalli?” e “Corvo rosso non avrai il mio scalpo”. Il caso, che lo ha assistito agli esordi, sembra ora accompagnarlo e trasformarsi in metodo: nel girare un film “non avevo un piano di partenza, non sapevo dove sarei andato a parare. Facevo in una certa maniera perché... perché sapevo fare solo in quella maniera”. Maschera il suo vero metodo, Pollack, fatto di ammirazione, studio e rielaborazione: il cinema europeo sta reinventando la forma, nello stesso momento Pollack cerca un modo nuovo di raccontare le sue storie classiche, fonde due diversi modi di fare cinema, si avvicina a quello europeo restando però fedele a se stesso, al suo essere americano. Il risultato, mai attraverso scelte consapevoli, non è mai un film ‘esattamente’ western, ‘esattamente’ thriller.
Ai progressi da regista, Sydney abbina la sua ormai affermata capacità di gestire gli attori, frutto della sua esperienza da attore e dagli anni di insegnamento. Sulla priorità nella recitazione è categorico: “Ogni forma di recitazione viene dal fare qualcosa, non dal dire qualcosa. Il 90% degli attori lavora su come dire le cose, è stupido. La recitazione è la capacità di vivere in modo sincero circostanze straordinarie. La parola è l’ultima cosa che subentra: a monte c’è un desiderio, un compito, un’intenzione”.

Sydney attore
Per più di venti anni Pollack fa cinema dietro la macchina da presa. Ma ha iniziato davanti, e sa che quello è l’unico punto dal quale può soddisfare la sua curiosità di vedere come gli altri registi dirigono, di trovare argomenti per l’inevitabile tormento del regista che si chiede continuamente se stia facendo bene.
Pollack lavora con registi che più eterogenei non si potrebbe, e alla fine di un’analisi comparata del modus operandi di Stanley Kubrick e Woody Allen è ancora più confuso, nell’incapacità di stabilire chi dei due operi meglio, chi abbia ragione: Kubrick controlla anche i respiri dell’attore tra una parola e l’altra, i gesti, le virgole del copione; Allen dà all’attore l’ordine di muoversi, a lui non interessa come, di dire quel che gli va di dire senza attenersi necessariamente al copione. Il primo rappresenta una forma d’opera, il secondo si avvicina il più possibile alla vita.
Pollack prende appunti.

Sydney e Dustin
La seconda carriera da attore di Pollack inizia con “Tootsie”: a coinvolgerlo è Dustin Hoffman che inizialmente non si capacita di doversi travestire da donna (“dov’è la mitraglietta?” chiede, citando “A qualcuno piace caldo”). Dustin impersona un attore e il suo agente gli dice che non lavorerà mai più: “quello lì? Io non mi vesto da donna. Se me lo dici tu – dice al regista – va bene, mi vesto da donna”. Non è un ricatto, Hoffman farà il film ma insiste perché il ruolo dell’agente lo ricopra Pollack stesso al punto da mandargli per giorni delle rose rosse in camerino (il biglietto dice qualcosa del tipo “sii il mio agente e sarò la tua donna”).
Così Pollack si convince a tornare davanti alla macchina da presa ma non sarà un unicum: da quel momento tutti inizieranno a chiamarlo per recitare. Un altro sei scandisce la sua carriera ‘casuale’.

Sydney e Robert
Come ogni regista (è un modo di dire, non è sempre vero), anche Pollack ha il suo attore-feticcio: è Robert Redford, sette volte protagonista delle sue pellicole.
E’ il 1966 quando Natalie Wood, da star quale era, sceglie prima Redford come partner in “Questa ragazza è di tutti”, quindi Pollack come regista. Passa un po’ di tempo ed è Pollack a mandare a Redford la sceneggiatura di “Corvo rosso non avrai il mio scalpo” e l’attore lo segue entusiasta. Entusiasmo che viene meno quando non vuole fare “Come eravamo”, rifiutando la parte del bello ma passivo. Ci vuole qualche mese perché Pollack riesca, facendo leva sul tasto dell’amicizia, a convincerlo: Redford è un tipo perfetto per qualunque genere di film, senza contare che Pollack ama le storie d’amore. Oggi dice di lui che “è un attore simile a Mastroianni, minimalista: la macchina da presa richiede una scala diversa dal teatro, lui è perfettamente rilassato fuori ma complesso all’interno. Non è ciò che sembra, un po’ come l’America”.

Sydney e Luchino
Nel frattempo il dado di Burt Lancaster ha ripreso a rotolare, fermandosi nuovamente sul sei. Due anni dopo la prima telefonata, ne arriva una seconda: alle domande “sai chi sono Luchino Visconti o Tomasi di Lampedusa” Pollack risponde candidamente di no. “Ok, compra e leggi subito questo libro e vieni in Italia con me”.
L’inciso di Pollack è eccezionale: “Andai in Italia sul set de “Il Gattopardo” senza sapere nemmeno chi fosse Visconti: Scorsese mi avrebbe ucciso, lui ci sarebbe andato in ginocchio”.
Gli aneddoti romani sono altrettanto gustosi, dal set nel quale ognuno recitava nella sua lingua tanto da passare giornate nelle quali si girava pronunciando parole senza senso, in attesa che il doppiaggio sistemasse il tutto, al giovane Sydney che trascorreva le serate (e le nottate) imitando Mastroianni, facendo su e giù per via Veneto senza perdersi un solo bar.
Cos’altro aggiungere? “Visconti è un genio”.

Ultimo sketch
Venerdì 30 marzo esce in Italia “Frank Gehry creatore di sogni” (“Sketches of Frank Gehry”), un documentario sul celeberrimo architetto del Guggenheim di Bilbao.
Il film è girato per buona parte in digitale: non è il primo a farlo, David Lynch e George Lucas hanno dichiarato che passeranno definitivamente al digitale. Anche il prossimo film di Pollack, che sarà per la televisione, sarà girato interamente con una videocamera ad alta definizione.
“Il digitale dà vantaggi innegabili sia a livello economico che di tempo, di peso eccetera. Il risultato però non è lo stesso”, ammette.
La pellicola è rimasta nel cassetto perché Gehry non è un attore, non avrebbe potuto sentirsi a suo agio, essere sincero di fronte a una troupe e Pollack non sarebbe riuscito a coglierne l’essenza. “Però l’architettura volevo che venisse bene e ho usato la macchina da presa”.
Quantomeno il dado era truccato.