Cinema del Silenzio - Rivista di Cinema

Milos Forman I due percorsi di un anticonformista

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a cura di Glauco Almonte
75 anni divisi tra Europa e America, vivendo a fondo i difetti di entrambe ma riuscendo sempre a individuarne i pregi, comunicando le sue visioni (mai se stesso) attraverso il linguaggio cinematografico. Un linguaggio che non è in continua evoluzione, come si dice per la maggior parte dei registi, ma che è ben definito e padroneggiato con maestria: c’è stato un cambiamento netto nel suo modo di fare cinema, che ha coinciso con il cambiamento più grande della sua vita; per il resto, Forman non ha mai sentito il bisogno di cercare nuove forme per dire ciò che sapeva benissimo come dire con il suo cinema maturo.
L’apprendistato, la fase della crescita, si conclude con la fine della prima fase ‘giovanile’: ha 36 anni quando lascia la Cecoslovacchia. I carri armati sovietici mettono fine alla Primavera di Praga, Milos Forman trova negli Stati Uniti un’aria nuova, una liberazione dopo una vita spesa sotto il nazismo prima, il comunismo poi (nelle sue interviste Forman li mette spesso sullo stesso piano in quanto regimi).
Ciò che lascia è il suo stile quasi documentaristico, teso a cogliere la realtà nelle sue sfumature: il suo cinema, povero di mezzi, è fatto di movimenti di macchina, di pause, di idee per sopperire la mancanza di spettacolarità, non è la messa in scena di una sceneggiatura particolareggiata ma è un cinema di scoperta. Soprattutto, è un ottimo cinema: in nomination agli Oscar come miglior film straniero, premiato a Locarno, Forman parla da dietro la cortina di ferro ma è ascoltato anche dall’altra parte.
Ad ascoltarlo, tra gli altri, c’è Kirk Douglas: attorno al suo nome, al successo de “L’asso di picche” e “Al fuoco, pompieri!” (conosciuto anche come “Il ballo dei pompieri”) e al progetto di “Qualcuno volò sul nido del cuculo” ruota il passaggio di Forman dal cinema europeo a quello americano. Curiose le due versioni di una storia la cui verità salterà fuori dopo molti anni: Douglas individua nel giovane regista ceco l’ideale per il film che ha deciso di produrre, gli parla, gli spedisce il libro ma non riceve mai alcuna risposta; Forman accoglie la sua proposta con entusiasmo, considerandola un’occasione irripetibile, ma non riceve mai il libro che gli è stato promesso. Le coincidenze sfondano il muro della credibilità quando, dopo 10 anni, Michael Douglas spedisce lo stesso libro, all’insaputa del padre, al regista alla ricerca di lavoro negli Stati Uniti. Dieci anni di cattivi pensieri spariscono, il film ambientato in un manicomio, sul quale nessuna major ha voluto scommettere, viene girato. Ancora oggi, è il miglior film che Forman abbia mai realizzato.
Da questo momento in avanti, si può dire che la carriera di Milos Forman abbia trovato stabilità: una stabilità di linguaggio, di stile, di azzardi a partire dalle ambientazioni atipiche. E, di conseguenza, di mille vicissitudini nella realizzazione di ogni film. Il regista ceco non sceglie le sue storie, ma le trova quasi per caso: “Hair” per esempio nasce una sera, quando è trascinato controvoglia a vedere il musical in un teatro londinese. Eppure il messaggio che traspare ha sempre la stessa matrice anticonformista: contro il potere e la repressione, contro il militarismo e il concetto retorico di patria (non contro la guerra e il governo, quello sarebbe stato conformistico oltre che anacronistico). A favore della contestazione, della libertà personale, di coscienza e di espressione (“Larry Flint – oltre lo scandalo).
Forman prende di petto una società che ha compenetrato profondamente, come dimostra con “Taking Off”, una satira sui vizi degli americani girata poco dopo l’arrivo negli States. Ma lì si ferma, la sua non è una missione ma, come già detto, una forma d’espressione. Una forma che sempre più spesso si fa arte, toccando l’apice nel parallelismo tra l’immersione nel manicomio di “Qualcuno volò sul nido del cuculo” e la proiezione oltre le mura del cronicario di “Amadeus”. Un viaggio di andata e ritorno negli abissi del contrasto tra uomo e istituzioni, quelle istituzioni delle quali “l’uomo sente il bisogno, le crea con l’idea che lo possano aiutare ma finisce per diventare loro proprietà, schiavo di qualcosa che è stato lui a volere”.
E’ molto netto nelle sue posizioni Forman, non cerca più di cogliere le infinite sfumature della realtà ma solo quelle della società, nella quale si muovono, come vogliono gli americani, i buoni e i cattivi. Tuttavia Forman non si conforma alle pretese di un paese che è esso stesso una contraddizione, spaccato in due tra l’entroterra e la costa, per larghissima parte (territorialmente) culturalmente arretrato: i suoi buoni sono i Berger che disertano e si fanno di LSD, i Randy che si fingono pazzi per evitare il carcere, i Larry Flint che trovano il successo con la pornografia, i Kaufman che raggirano il proprio pubblico e non lo divertono. I cattivi sono tutti coloro che osteggiano la loro genialità, la direttrice Miss Ratched, il compositore di corte Salieri, il pubblico che non guarda oltre la morale comune e distrugge chi si permette di farlo.
Cinque Oscar (i più importanti) e due David di Donatello a “Qualcuno volò sul nido del cuculo”, otto Oscar e tre David ad “Amadeus”, due film dall’ambientazione impensabile, per di più uno in costume; il Premio della Giuria a Cannes per “Taking Off”, l’Orso d’Oro a “Larry Flint – Oltre lo scandalo”, il David per la regia ad “Hair”: le denunce sociali di Milos Forman non restano inascoltate. La società non ama chi ne mette a nudo le pecche, ma di fronte a chi lo fa con tanto mestiere, con arte, non può che inchinarsi.