Cinema del Silenzio - Rivista di Cinema

C'era una volta in America C'era una volta in America

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a cura di Vaniel Maestosi
Di fronte ad un certo tipo di capolavori si vive la vanità dell’atto critico. Quei capolavori che eccedono l’arte, che si pongono fuori dalle stesse coordinate artistiche – pur rimanendo opere d’arte - capolavori che, per dirla con Nietzsche, installano la loro vita reale fuori di essi, nel loro essere precipitati di una pratica esistenziale, volta non a creare capolavori ma ad “essere capolavori”, farsi capolavori. C’era una volta in America fa di Leone un capolavoro, e non è un capolavoro di Leone. Su simili specchi vertiginosi è assolutamente inutile (ed è ridicolo) che il critico cerchi di arrampicarsi, seppur allo scopo miserando di un quotidiano stipendio. Il critico può tentare l’arrampicata del sociale, conquistando gli onori della cronaca e gli agi del mestiere, ma non può andare a sfruculiare i “capolavori in eccesso”, non hanno nulla da dirgli né tantomeno lui a qualcosa da dire loro. Perché tali capolavori sono “in-cronacabili”, “im-parlabili”, “im-memorabili”, e per di più hanno fatto fuori definitivamente - con i loro meccanismi - qualsivoglia residuo di sociale, innescandosi come rituali solipsistici, in prometeica rivolta contro il disagio d’esserci: come può andare a fastidiare simili “mostri” – il critico – con l’agio grassottello del suo mestiere di cantore della cronaca quotidiana?
Per di più, tali capolavori sfuggono pur anche agli autori che li hanno creati, o, per esser più precisi, a quegli autori - senza auctoritas - che tali capolavori hanno attraversato per pervenire al mondo: non si è autori mai di alcunché, le opere attraversano chi da loro si fa attraversare. Non si scrivono opere; sono le opere a farsi scrivere da un chissà chi. Difatti l’autore non riesce a spiegarsele tali (non più) sue opere, perché in realtà non è stato lui in quanto soggetto a scriverle, ma sono fuoriuscite dall’alchimia di lui in quanto “unità psicosomatica” (e non in quanto soggetto), miracoli che nascono dalla ex-stasis, dall’abbandono... Ma nell’abbandono l’autore non c’è più come identità, come “Sergio Leone” per es., perché non ci si conquista l’abbandono, ma si è l’abbandono. “Chi vola è lui stesso il volo”.
Ad andare ancor più in profondità, i “capolavori in eccesso”, non solo sfuggono all’auctoritas dell’autore, ma eccedono, come abbiamo già accennato, le categorie - acclamate e conclamate dalla medietas critico-artistica - della stessa arte cui, in definitiva, appartengono. Scriveva Landolfi nel Rien va: “non si può fare musica con la musica, pittura con la pittura, letteratura con la letteratura”. L’Adagio della Decima Sinfonia di Gustav Mahler, non è più musica, è un quid che la musica ha ecceduto; Apollo e Dafne, o La Beata Ludovica Albertoni del Bernini, eccedono, liquidano la scultura nella sua medietà normativa, si pongono come la scultura in ex-stasis...
Ora incitando beffardamente le riottosità del benpensantismo di chi si occupa di cultura nella pausa del dopolavoro serale, o di chi di cultura si è occupato (operosi servizi igienici...), possiamo dire che – per gli scriventi le presenti righe -, C’era una volta in America di Leone appartiene a questa razza di capolavori in eccesso , e non è più cinema, esce dall’ordo normativo del cinema. Non si può, allora, che palesare il disagio o l’impossibilità di tentare un atto critico su C’era una volta in America, come stiamo facendo in tale “scrittura”, denunciare, comunque, l’ipoteticità, la relativa pertinenza di un atto critico su tale “eccesso di cinema”. Se è disagiante, difficoltoso, delicato, un atto critico su questo (non più)-film, ossia uno studio serio della sua “macchina scritturale”, figuriamoci quanto possa inerire al ridicolo o all’idiota, una recensione gazzettiera da giornale cinematico o cinematografomane che dir si voglia. In un articolo da pagina corrieristica, non si potrebbe con-tenere neppure un accenno di trama di C’era una volta in America: sarebbe la trama di un film, e quindi si parlerebbe d’altro, si andrebbe fuori tema, si con-terrebbe un’altra “cosa”, perché un “capolavoro ecceduto” è sempre in-continente... Avremmo svuotato la nostra in-continenza (critica) fuori dal vaso.
C’era una volta in America narra del Mito, e si pone come una meditazione sul Mito e sulla Mitologia: ma in questo suo raccontare le epifanie del Mito l’opera stessa diviene racconto che si autocostituisce come Mito di sé stesso, un racconto mitico che si pone come Genealogia del Mito. Ovviamente non si tratta del mito americano, del sogno (da manuale psichiatrico) americano, come prontamente il critico avviserà, fallendo ancora una volta il vaso approntato per la sua incontinenza.
Ma quale mito americano! Solamente perché la fabula dell’opera s’impianta nella regione geografica ora detta statunitense? Allora il Faust di Goethe sarebbe una meditazione sul Mito del ducato di Weimar?
Leone rende visione il costituirsi dei Miti umani, delle dinamiche che portano l’uomo fuori di sé, nei miracoli delle esistenze umane e del mistero che le abita: basta scostare l’occhio più in là, rispetto agli sfacchinaggi della quotidiana vita sociale, per intravedere le altre infinite rifrangenze della presunta realtà. Vedere gli eventi e gli accadimenti in “prospettiva cosmica”, sub specie aeternitatis – avrebbe detto Spinoza -: C’era una volta in America è solcata (l’opera, non il film) da tale sguardo altro, uno scrutare da distanze siderali, un guardare il mondo dall’infinità di una diversità radicale. Spettatori pietosi (da pietas), sdegnosamente commossi, della propria esistenza e, soprattutto, dell’esistenza del mondo intero: questa è la “prospettiva” dello sguardo di C’era una volta in America, la prospettiva non umana, oltre umana, di chi è “contemplante” da vertiginose distanze. A raccontare, in quest’opera, non è Sergio Leone, ma il Mito stesso: è il Mito che si racconta, e che contempla chi, a tale Mito, ha dato vita e chi l’ha costituito, costruito, ossia l’uomo. Il Mito che gli uomini tessono, nell’affanno dei loro atti, nella vanità radicale delle loro azioni, nel lavorìo ebete a cercar di dare un senso ad un esistenza, ad un tutto, ad un caosmos che un senso non ha, perché – in quanto caosmos – si pone come vertiginosa proliferazione incessante di infinità di sensi.
Il Mito dell’amicizia che stria la fabula tutta di C’era una volta in America altro non è che il mito del sociale, del rapportarsi tra uomini, il Mito (o l’equivoco) del comunicare, dell’esprimersi, del rendersi simpatetico al simile. A questo Mito s’aggancia la polivocità degli altri Miti umani, quello dell’amore, dell’onore, della dignità, dell’eroicità. Ma nel respiro della visione di C’era una volta in America, non c’è demistificazione del Mito, smascheramento della equivocità dello sperare e della vanità dell’agire umani. Si sarebbe nella polemica, nell’ ”Umano, troppo umano” nietzscheano.
Lo sguardo che brilla nell’opera di Leone è lo sguardo cosmico di chi assiste alle permutazioni del vivere umano, con la compassione del sapiente o dell’inumano, un cosmo che guarda un altro cosmo. Un cosmo che si specchia in sé come cosmo. Il cosmo che mima il Mito di Narciso.

Nota per il lettore: non rimane che rivedere l’opera di Leone.
Immergersi di nuovo nel suo fluire e domandarsi, interrogarsi, chiedersi gli infiniti perché.
Ma fatevi un favore: non rispondete.
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