Cinema del Silenzio - Rivista di Cinema

Mario Monicelli Mario, amico nostro

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a cura di Glauco Almonte
Sono passati appena sei mesi da quando, al telefono, Mario Monicelli si mostrò entusiasta della prospettiva di aiutare un festival giovane, lodandone la vitale importanza ma sottolineandone al contempo la responsabilità di un futuro ancora tutto da scrivere; un entusiasmo ed una vitalità soffocati dalla difficoltà di programmare il proprio futuro prossimo, nella necessità di centellinare le visite e le uscite di casa. La sera del 29 novembre 2010, a novantacinque anni e mezzo, apre la finestra della stanza dell’ospedale San Giovanni di Roma, in cui si trova, e sceglie la strada più breve tra il quinto piano e il suolo. La strada più breve tra la vita e la morte.
Mario Monicelli ha scelto fino all’ultimo, e la sua ultima scelta – signori benpensanti, spero non vi dispiaccia – merita l’attenzione che richiede: non un giudizio, ma un perché. Perché un uomo di quasi cento anni scelga il suicidio, se non per paura – la paura di non avere più il tempo di scegliere – o per provocazione. O entrambe, curiosamente in coincidenza da un lato della levata di scudi di associazioni contro l’eutanasia e il libero arbitrio, dall’altro di una rivolta studentesca come da decenni non si vedeva, a cui venti anni di videocrazia ci avevano tolto la speranza di assistere e di partecipare. I giovani dunque, a cui Monicelli in tarda età si è sempre rivolto, spronandoli senza commiserarli; e la libertà, valore che ha sempre posto davanti agli altri, almeno pubblicamente, con un carattere schietto, spigoloso, più amaro che cinico, perché realista. Un carattere e un’attenzione che, uniti alla maestria di cui il tempo lo ha rapidamente dotato, gli hanno permesso di segnare l’epoca della commedia all’italiana dall’inizio alla fine, venti anni di cinema da “I soliti ignoti” a “Un borghese piccolo piccolo” all’interno di una produzione molto più vasta, che va dai primi lavori con Steno all’ultimo film, “Le rose del deserto”, girato con energia insospettabile a 90 anni – anche se il suo testamento artistico-spirituale è un breve documentario di due anni fa, “Vicino al Colosseo... c’è Monti”.
Tra i primi lavori, con Steno e Totò, non si può che partire da “Guardie e ladri”, premiato come miglior sceneggiatura a Cannes; la sua antitesi è “I soliti ignoti”, forse il suo film più celebrato, insieme a “La grande guerra”, che lo segue di un anno: a 45 anni ha già collezionato premi in tutti i festival più importanti, da Cannes a Berlino, da Venezia agli Oscar (“La grande guerra” gli vale sia la nomination dell’Academy che il Leone d’oro). Ma soprattutto ha realizzato, uno dopo l’altro, il film capostipite della commedia che negli anni successivi verrà definita “all’italiana” – una commedia intrisa di risvolti comici sullo sfondo di una società sofferente e depressa – e un film molto diverso, ambientato mezzo secolo prima, durante la Prima Guerra Mondiale, con un finale tragico; eppure i risvolti del film sono gli stessi, comune è la visione dell’uomo, del mondo e, soprattutto, di come affrontarlo.
Gli anni ’60 sono segnati, oltre che dalla partecipazione a film corali, da pellicole eterogenee, dal dramma impegnato de “I compagni” (altra nomination agli Oscar) al grottesco “L’armata Brancaleone”, entrato in maniera indelebile nell’immaginario e nel frasario collettivo, fino alla commedia “La ragazza con la pistola” (terza nomination). Se Gassman fa storia ad ogni interpretazione, non sono da meno i tanti attori che attraversano le pellicole di quello che a 50 anni è già un maestro, da Sordi, Mastroianni e Volontè a Monica Vitti, Silvana Mangano e Claudia Cardinale, e negli anni ’70 – aperti dal secondo episodio di Brancaleone da Norcia – toccherà a Tognazzi, alla Sandrelli e ai giovanissimi Michele Placido e Ornella Muti. Prima di sancire con “Un borghese piccolo piccolo” la fine del periodo d’oro della commedia italiana, Monicelli apre al futuro con “Amici miei”, film scanzonato e irriverente che riprenderà negli anni ’80 (e Nanni Loy chiuderà nell’85) raccontando le zingarate di quattro (poi cinque) toscanacci mai cresciuti: così come l’auli-comico linguaggio di Brancaleone, i termini ‘zingarata’ e soprattutto ‘supercazzola’ non passeranno mai di moda. La morte del Perozzi (Philippe Noiret) è una dichiarazione preventiva: Monicelli esorcizza la morte lasciando che il suo personaggio sia coerente fino all’ultimo, e se ne vada con l’ultimo sberleffo, l’ultima provocazione.
Negli anni ’80 la verve monicelliana non cambia, spostandosi dalla Roma papale de “Il Marchese del Grillo” di nuovo al Medio Evo (“Bertoldo, Bertoldino e... Cacasenno”), quindi alla Toscana contemporanea di “Speriamo che sia femmina”, una co-produzione internazionale con protagoniste Liv Ullmann e Catherine Deneuve.
Gli ultimi grandi esempi di lettura della società, una lettura amara ma non disposta a rinunciare al sorriso, sono “Parenti serpenti” (un soggetto di Carmine Amoroso, solo l’ultimo degli sceneggiatori con cui ha lavorato, da Age e Scarpelli a Leonardo Benvenuti, Piero De Bernardi e Suso Cecchi D’Amico) e “Cari fottutissimi amici”. Il resto è una presenza forte e mai banale, a fianco dei colleghi di un tempo e di chi vedeva nel cinema la sua strada futura, una voce di sostegno per chi prova a lavorare, una voce contro chi lo impedisce. A forza di interpretare la società nostrana il sarcasmo ha preso il posto dell’ironia, la causticità quello del realismo; l’amarezza però non ha mai avuto la meglio sulla speranza di poter continuare a fare quel che si vuole attraverso la lotta, così come il gesto di lunedì sera non è stato rassegnazione o rinuncia, ma l’ultima estrema affermazione di sé, della propria autonomia, della propria libertà.