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Gabriele Salvatores Dall'Oscar alla sperimentazione, tornando al teatro

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a cura di Giordano Rampazzi
Non si può parlare di Gabriele Salvatores senza partire dall’accadimento spartiacque della sua vita artistica. Siamo nel 1991 e il quinto film del regista napoletano, “Mediterraneo”, conquista un po’ a sorpresa l’Oscar come miglior film straniero, tre premi (miglior film, montaggio e suono) ai David di Donatello e un Nastro d’Argento per la regia. Il film è l’ultimo di una sorta di trilogia sul viaggio, l’amicizia e la fuga dalla realtà, cominciata con “Marrakech Express” (1989) e proseguita con “Turné” (1989). Il successo - da dividere con lo sceneggiatore Enzo Monteleone - e l’euforia post Oscar mettono Salvatores di fronte alle gioie ma anche alle difficoltà psicologiche del periodo che seguono un trionfo. La tentazione di adagiarsi e di ripercorrere sempre la stessa strada con la quale è arrivato al successo sembra mettere ansia a Salvatores. La sensazione di aver raggiunto il traguardo massimo con il suo cinema lo spinge così alla ricerca di un importante rinnovamento, a staccarsi da quel modello autarchico e da quel taglio così italiano e marchiatamente goliardico delle sue commedie.
Puerto Escondido” (1992) e “Sud” (1993) sono piccole avvisaglie di una deriva sperimentale che Salvatores ha già nella testa e il loro stato di film ibrido non convince pienamente né il regista né i suoi estimatori.
Passano addirittura quattro anni prima che esca “Nirvana” (1997), simbolo del nuovo periodo. Il film è uno strano incrocio di western e fantascienza all’italiana, sperimentale nella regia quanto nelle plastificate visioni cibernetiche. Il lungo passato teatrale di Salvatores lo aiuta massicciamente nella direzione degli attori, sua piccola grande fissazione. C’è ancora una volta Diego Abatantuono, attore feticcio e amico; c’è la prima delle tre collaborazioni con Sergio Rubini; c’è l’inserimento di una star internazionale come Christopher Lambert; c’è il rapporto creatore-creatura, che riprende il filo del rapporto padre-figlio visto in “Marrakech Express” e che si vedrà successivamente in “Io non ho paura”, “Amnèsia” e “Come Dio comanda”. “Nirvana”, interessante ma fondamentalmente non riuscito, è un’opera di valore simbolico e di grande coraggio. Ha il merito di spezzare le catene con cinema italiano di quel periodo, ancorato alla rappresentazione di problemi statici di una borghesia per nulla interessante.
Dopo tre anni esce “Denti”, film surreale e grottesco che vede protagonista un intenso e frenetico Sergio Rubini e soprattutto i suoi denti sproporzionati. Attraverso l’eccesso, Salvatores cerca curiosamente dai suoi strambi protagonisti una risposta alle proprie domande. Non sempre arrivano, ma si ha l’impressione che il nuovo ambizioso Salvatores sia sottovalutato da pubblico e critica, probabilmente colpiti più dal caos che dalle idee che il regista disordinatamente insegue. I suoi film lasciano trasparire, oltre al grande divertimento di chi vi ha lavorato, un’anima artistica attraverso la quale viene filtrata la materia (cinematografica) trattata.
Amnèsia”, film controverso e improbabile, è l’ennesimo tentativo di percorrere strade poco battute e la conferma della curiosità del regista napoletano per le droga, che in questo film si chiama cocaina, ma in altri è hashish o peyote.
Con “Io non ho paura” (2003) nasce invece un’importante legame con lo scrittore Niccolò Ammaniti - ripresa poi nell’ultimo “Come Dio comanda” - e ripristina una chiave narrativamente letteraria nella sua filmografia. “Io non ho paura” è il suo più recente successo e certifica la grande capacità di Gabriele Salvatores di organizzare il rapporto tra inquadratura, spazi e psicologia dei personaggi. La bellezza dei campi di grano sotto il sole e la superba fotografia di Italo Petriccione non sono mai fini a sé stessi. Non c’è mai un paesaggio senza la presenza di un attore; non c’è mai un’immagine senza una chiave di lettura dello spettatore; non manca mai la magia dello sguardo tipico dell’infansia; non manca mai la rappresentazione della drammatica e disperata realtà.
Salvatores sembra non riuscire a fare a meno del rischio. Così, nel 2004, convinto che il noir sia “il genere letterario più titolato a raccontare la realtà ossessiva, anormale e illegale in cui viviamo”, fonda, insieme a Sindrone Dazieri e Maurizio Totti, la casa di produzione “Colorado Noir”, che dà subito alla luce il curioso “Quo vadis, baby?”, primo e unico thiller-noir clautrofobico della sua filmografia.
Per la sua penultima uscita, “Come Dio Comanda”, Salvatores - uno dei registi più originali, eccentrici e spiazzanti del panorama italiano - si affida ad Ammaniti e crea ancora una volta un microcosmo apparentemente distaccato dal resto del mondo. La sua ossessione per gli sguardi si posa questa volta sugli insegnamenti violenti e razzisti di un padre a suo figlio. C’è però uno sguardo che è pesantemente assente: quello di Dio.
Che Salvatores ami il rischio lo si vede anche nel suo ultimo film, “Happy Family”, una commedia che racconta la vita come se fosse un film. In un continuo oscillare tra oggettività e soggettività, realtà e finzione, lo spettatore viene spesso coinvolto direttamente nel racconto, quasi fosse a teatro. Non è un caso. Salvatores viene infatti dal teatro (nel 1972 fonda a Milano il Teatro Elfo) e Happy Family è in realtà la messa in scena di una commedia teatrale di Alessandro Genovesi. Il passato dietro le quinte di Salvatores emerge dunque in modo evidente con la sua capacità di lavorare con gli attori (Margherita Buy, Diego Abbatantuono, Fabrizio Bentivoglio, Fabio De Luigi). Il film soffre forse un marchio teatrale un po' forte, ma il regista è bravo nel tenere alta l'intensità e nel suggerirci di non aver paura di cambiare e di provare nuove vie, citando senza rinunciare all'originalità, cercando il divertimento senza rinunciare alla critica.
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