Cinema del Silenzio - Rivista di Cinema

Clint Eastwood Le due carriere di una maschera

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a cura di Glauco Almonte
Avevo bisogno di una maschera, più che di un attore, Eastwood mi era sembrato perfetto: a quell’epoca aveva soltanto due espressioni, col cappello e senza cappello”. Questo il celeberrimo giudizio di Sergio Leone su Clint Eastwood, ovvero di uno dei più grandi registi della storia del cinema su di un attore allora semi-sconosciuto. Clint sorride sotto il cappello – una delle poche espressioni sul suo viso da pistolero – e continua a cavalcare. Lungi dal risentirne, valorizza quel personaggio senza emozioni né nome e lo ricicla in due film da lui stesso diretti. Peccato per il rifiuto di interpretare un ruolo minore ma significativo in “C’era una volta il West”, d’altronde nei suoi film non muore (quasi) mai, e non accettò di uscir di scena dopo 20 minuti; avrebbe significato il nuovo che avanza, ma l’attore-divo non è ancora pronto per sentirsi “vecchio”.
Clint è così, va per la sua strada, ma ci va a modo suo.
L’ispettore Callaghan è soltanto un’altra faccia di un personaggio in via di definizione, un pistolero in ritardo di un secolo, in un mondo in cui le regole sono cambiate poco. E’ un attore, non un grande attore, ma ha saputo creare un contatto con il pubblico che non lo abbandonerà più. Quando negli anni ’90 il pubblico capisce che il personaggio-Eastwood è finito per sempre in un cassetto, superato da un mondo finalmente cambiato, Clint è già passato dietro la macchina da presa, ed i risultati sono già di alto livello: ha fatto gavetta e dei suoi primi dieci-quindici film è degno di nota soltanto “Il texano dagli occhi di ghiaccio”, ma nel 1988 “Bird” convince il pubblico e la critica di Cannes, anche grazie ad un superlativo Forest Whitaker nel ruolo del sassofonista Charlie Parker.
Con “Bird” Clint completa la sua migrazione: da attore ad autore, dalla prima fase di carriera salutata con successo dal pubblico alla seconda fase, acclamata dalla critica. La strada di Clint è imprevedibile, eppure in ogni intervista ci si stupisce di un uomo che sembra costruito rigorosamente, con una mentalità antiquata e pochissimo spazio alla fantasia. Il suo volto sembra rappresentare alla perfezione una personalità immutabile, le due espressioni di gioventù si fondono in un’unica immobilità che sa di chirurgia, o di botulino. Se l’abito (un cappello e un poncho) ha fatto il pistolero, stavolta non fa il monaco: Clint sorprende maggiormente in virtù dell’impressione che suscita. I primi anni ’90 ne sono un esempio, segnati da tre successi estremamente diversi tra loro. Il primo è il film-simbolo dell’Eastwood artista, un western crepuscolare che lo vede di nuovo in scena come protagonista, finalmente a rappresentare quel “vecchio” che negò a Leone; “Gli spietati” è un film da non trascurare, può essere messo accanto ai classici del genere in un libro di storia, ed è alla base, soprattutto per quanto concerne la regia, dei pochi ma ottimi western moderni quali il recente “Appaloosa”. Quattro Oscar. In rapida sequenza escono “Un mondo perfetto” e “I ponti di Madison County”: cosa hanno a che vedere l’uno con l’altro? Niente, è questo il bello. Il primo è un progetto di Spielberg, nel quale Clint subentra in un secondo momento; è un poliziesco, ma le atmosfere non sono quelle dell’ispettore Callaghan, Eastwood fornisce una prova d’attore di livello – non era stato da meno ne “Gli spietati” – ed una registica che riceve consensi unanimi. Il secondo è un film sentimentale, niente di più lontano dalle aspettative: se la critica storce il naso il pubblico dà invece regione al regista californiano. Non sarà lo stesso pubblico de “Gli spietati”, ma è più numeroso e le critiche che si possono fare al film non toccano l’aspetto registico. Sembra un punto d’arrivo, e invece si potrebbe dire che la carriera di Clint sia appena iniziata.
Inutile soffermarsi su ogni pellicola, almeno nel decennio successivo; va invece sottolineata l’ennesima variazione, da “Space Cowboys” a “Mystic River” (due Oscar): Eastwood è sulla cresta dell’onda da meno di 15 anni, come regista, e si è già cimentato in più generi di Kubrick
Gli ultimi sette film sono la summa delle apparenti contraddizioni di questo personaggio: l’accoppiata “Million Dollar Baby” – “Flags of our Fathers” gli vale quattro Oscar e l’accusa (europea) di americanismo, in attesa delle reazioni ad “Invictus”; tornano d’attualità i vecchi pregiudizi, si parla di lui in qualità di conservatore. Eppure, contemporaneamente a “Flags of our Fathers”, Eastwood gira con un budget minimo “Letters from Iwo Jima”, a tutti gli effetti l’altra faccia della medaglia: onestà intellettuale, onestà storica, onestà cinematografica. “Changeling” è una storia vera – non meno dei film sulla battaglia di Iwo Jima – e Clint calca la mano non soltanto sulla tragedia della protagonista, ma anche, se non soprattutto, sulla polizia della Los Angeles di fine anni ’20; se gli si può fare una critica, è solo che per la quinta volta consecutiva sfora le due ore, con tutti i problemi che un film troppo lungo si porta dietro. Ma in nessuno di questi film si perde, mantenendo vivo l’interesse fino alla fine. Se poi vogliamo parlare di aspettative, lo stereotipo dell’uomo antiquato e conservatore viene disintegrato dalle tematiche di questi film, dall’eutanasia di “Million Dollar Baby” all’immagine della polizia di “Changeling”, prepotente e non dalla parte del cittadino, fino al racconto della Coppa del Mondo di rugby che segnò la fine dell’odio e del risentimento razziali e la nascita di un Paese.
Dopo “Changeling” potremmo trovarci ancora una volta davanti a un punto d’arrivo, e ancora una volta veniamo smentiti: Clint non si assuefa alla comodità della poltrona da regista e sale nuovamente sul set per "Gran Torino", quattro film dopo la sua ultima volta. Il ruolo è nuovamente di quelli che non si dimenticano, un anziano solo e razzista alle prese con una famiglia di "musi gialli", alle prese soprattutto con se stesso. Alle prese con un altro tabu più che da sfatare da analizzare, perché solo superando la paura del primo approccio si possono capire le cose. Inutile ormai sottolinearne la maestria, ben superiore alle capacità attoriali. Giù il cappello, verrebbe da dire, se questo non dimezzasse le espressioni possibili.
L’ennesimo errore, con Clint, è quello di abituarsi al suo lato reazionario, un aspetto intellettuale ma non evidentemente viscerale: quando si concentra sulla storia di Nelson Mandela, un uomo capace di perdonare dopo aver passato 30 anni in prigione e di lottare per unire un paese attorno ad un simbolo (la squadra di rugby, fino ad allora tifata dai bianchi e odiata dai neri), l’attesa per scoprire il suo approccio ad un altroo tema caldo è tanta. Un attesa delusa, perché figlia di una rivalutazione e quindi capace di prescindere da aspetti critici, concentrandosi su quelli umani e sociali. Clint affronta “Invictus” abbozzando una delicatezza che non è nelle sue corde, e la retorica viene fuori prepotente; il simbolismo diventa didascalismo, e quando non c’è retorica non riesce a commuovere in altri modi. Nella guerra interiore di un uomo che pone fine a una guerra reale, manca quel che in un film proprio non dovrebbe mancare: l’anima.
Se la lezione è abituarsi a non essere abituati, stavolta ha funzionato anche troppo.
Il banco di prova successivo lascia sospeso il giudizio, ancora una volta chiediamo a questo vecchio di continuare a parlare affinché lo si possa decifrare meglio: “Hereafter” è un thriller soprannaturale sulla morte, terreno ideale per la retorica ma anche per mettere da parte le banalità e dire qualcosa. Clint non cade nella trappola della retorica per la seconda volta di fila, ma per farlo si tiene troppo in disparte dall’oggetto del film, evitando ogni risposta; naturalmente sono risposte che non ha e non potrebbe avere, ma a lasciare un senso di incompiutezza, più della recitazione non eccelsa in cui più di Matt Damon spicca Cécile De France, è la cautela con cui chiede che non sia più un tabù l’interrogarsi circa la morte e l'aldilà. L’innegabile maestria nella scena iniziale con lo tsunami ad Haiti predispone lo spettatore, pronto a ricevere il contenuto del film come un oracolo: come se non fosse in grado di autodefinirsi, Eastwood frena e non affronta di petto l’argomento, né reazionario né conservatore. Probabilmente è entrambe le cose ma noi aspettiamo, sperando, con entrambe le etichette a portata di mano, perennemente indecisi su quale buttare via.