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"In un mondo migliore" è in concorso al quinto Festival Internazionale del Film di Roma con il titolo originale "Hævnen"; la Teodora Film, che distribuirà la pellicola in Italia, ha fatto circolare una breve intervista alla regista Susanne Bier, cinquantenne danese già nota per i suoi ultimi tre film ("Noi due sconosciuti" è stato presentato proprio a Roma 3 anni fa). Susanne Bier parla del suo film, candidato danese agli Oscar 2011, che ha avuto un enorme successo in Patria ed è stato venduto in oltre 50 Paesi. |
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Cosa ha ispirato l'idea di questo film? |
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Ho discusso con Anders Thomas Jensen della Danimarca, che viene percepita come una società armoniosa e ideale, mentre nella realtà nulla è perfetto. Abbiamo iniziato a pensare ad una storia nella quale eventi imprevedibili avrebbero avuto effetti drammatici sulle persone e distrutto l’immagine di luogo incantato nel quale vivere. La storia di due ragazzi che diventano amici, ma uno di loro comincia a diventare violento, ha iniziato a svilupparsi. Di solito si crede — o si vuole credere — che i ragazzini siano buoni, creature dell’amore, ma in questo caso un dodicenne diventa cattivo, addirittura malvagio, perché arrabbiato. |
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Di cosa parla il film? |
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Il film è incentrato sul personaggio di Mikael Persbrandt, che interpreta un medico idealista che lavora per una missione umanitaria in un campo di rifugiati in Africa. Vuole fare la cosa giusta, ma gli eventi lo mettono alla prova e vediamo fino a che punto. La sua storia è intrecciata con quella dei ragazzi. Il medico è un personaggio interessante e intrigante che affronta le proprie ferite ma sogna un mondo migliore. |
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In "Dopo il matrimonio", anche Mads Mikkelsen era impegnato in campo umanitario, ma doveva fare una scelta difficile nella sua vita. Sembra affascinata da questi complessi personaggi maschili, messi alla prova dalla sorte e costretti a prendere decisioni pressoché eroiche. |
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Semplicemente mi piacciono le persone e sono i loro problemi che le rendono interessanti. Nel film, Mikael Persbrandt è romantico, idealista, ma non certo perfetto. È un vero essere umano con le sue fragilità, i suoi dubbi e le sue incertezze. Da regista e donna, mi sento spinta verso questi personaggi maschili. Gli attori spesso hanno un forte lato femminile, e mi piace trovarlo, come la profondità, segreto nascosto da portare allo scoperto. |
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Aveva in mente Ulrich Thomsen e Mikael Persbrandt quando ha scritto la sceneggiatura con Jensen? |
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Di solito non parliamo degli attori all’inizio della scrittura, vogliamo concentrarci sulla storia e sulla drammatizzazione dei personaggi. Poi, dopo la seconda e la terza scrittura, quando abbiamo i nomi, ci pensiamo e riscriviamo parti della storia. |
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Com’è stato per lei lavorare con Mikael Persbrandt? |
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È un attore molto dotato, di grande forza. Ha un lato animalesco molto vivo e questo è stato eccezionale per me, come regista. |
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Nel gennaio scorso ha avuto dei problemi con il Governo sudanese, che ha accusato il film di essere anti-islamico e di dipingere "una situazione inesistente in Darfur". Cosa ci dice di questo episodio? |
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Il film non ha nulla a che fare con il Darfur. È stato girato in Kenya, e l’azione si svolge da qualche parte in Africa, non in un luogo specifico. La storia poi non ha nulla a che vedere con la religione: l’accusa era del tutto fuori luogo. |
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Lei è uno dei filmmaker più "vendibili" di Scandinavia, e i suoi film sono noti in tutto il mondo. È importante per lei questo riconoscimento internazionale? |
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Il cinema per me non è fare piccoli film d’avanguardia che non vedrà mai nessuno. Mi piace essere connessa al pubblico, perché penso al pubblico quando faccio un film. |
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