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Germania occidentale, anni '70. Una serie di attacchi terroristici, dirottamenti aerei, rapimenti e assassinii sconvolgono il mondo politico e l'opinione pubblica tedesca. A rivendicare tali atti saranno i membri della RAF (Rote Armee Fraktion), movimento dell'estrema sinistra propugnatore della la lotta armata, fondato e guidato da Andreas Baader, Ulrike Meinhof e Gudrun Ensslin. Arrestati e incarcerati, i capi e alcuni membri del movimento moriranno in prigione nel 1977, apparentemente per suicidio, lasciando aperta una delle pagine più tragiche e misteriose della Germania post-nazista. |
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non permetteremo che vengano occupate scuole e università… darò istruzioni dettagliate su come intervenire attraverso le forze dell’ordine per evitare che questo possa succedere
Siamo nel ’67, la Germania è prossima allo stato di polizia, l’imperialismo americano domina nel mondo e i paesi europei lo assecondano, permettono agli USA di tutto. Anche oggi, in parte. Allora però c’era un movimento.
La scintilla più grande sembra la carica della polizia (e dei facinorosi sostenitori iraniani) sui manifestanti: è il 2 giugno, e Berlino assiste ad una pagina nerissima. La polizia che infierisce sui manifestanti disarmati rimarrà l’episodio di maggior violenza in tutti gli anni che seguiranno, e il film parte proprio da lì. L’esposizione iniziale dei fatti e del contesto è di parte, e non si potrebbe fare meglio: non tende all’empatizzazione dei personaggi che prendono corpo in quel momento, ma alla compenetrazione delle (giuste) ragioni di un movimento che ha abbracciato, in forme diverse, gran parte del mondo. Uli Edel ha vissuto quegli anni da studente, e simpatizzato per quel movimento. Andreas Baader, Gudrun Ensslin e, in un secondo momento, Ulrike Meihof, se ne distaccano. La differenza iniziale è quella tra protesta e resistenza, ma la deriva è rapida e la RAF passa dalle rapine agli attentati. L’occhio del regista non è più complice, e la ricostruzione dei fatti (secondo il libro di Stefan Aust) diventa più impersonale: non c’è pietà per i terroristi che scoprono, in carcere, di non essere più loro a gestire il movimento, un movimento che nel suo complesso non li ha mai seguiti, a dispetto di chi li evoca e continua a lottare nel loro nome. Baader, Ensslin, Raaspe e prima di loro Meins e Meinhof sono diventati delle icone, diverse da un Dutschke a cui spararono dopo un comizio, più pericolose perché mitizzate al di là delle reali azioni e intenzioni. Nel film è avvalorata la tesi del suicidio.
Le Germania fa passi da gigante, e si confronta con la RAF dopo nemmeno trent’anni (una bazzecola, se si pensa al tempo che ci hanno messo per accettare di aver dato vita al nazismo). Nello stesso momento in cui esce “La Banda Baader Meinhof”, altre realtà quali il piccolo e semi-indipendente “Schattenwelt” aprono un argomento sul quale la gente è ancora restia a discutere, una pagina dolorosa determinata non tanto dalle idee dei singoli, quanto da una situazione politica ben estesa (non sono particolarmente diverse le BR in Italia, e il delitto Moro ricalca quello Schleyer). Edel si dichiara dalla parte del movimento ma non da quella dei terroristi: è una scelta coraggiosa, poteva limitarsi a raccontare una storia rimanendone al di fuori, senza prendere posizione. Invece le immagini sono quelle “giuste”, la guerra in Vietnam, gli omicidi di Kennedy e Martin Luther King, le rivolte in tutta Europa, i crimini di Stato. Eravamo dalla loro parte, siamo ancora adesso dalla loro parte. Poi tutto è finito, o è stato sopito, ma alcuni non lo hanno accettato. L’ora centrale del film parla di alcune di queste persone, la Frazione Armata Rossa; l’ultima parte racconta invece di un processo farsa, senza una difesa, messo a tacere in fretta dalla storia. Era ora che il discorso si riaprisse, e nessuno meglio del rinato cinema tedesco di questi anni poteva farlo. |
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