“Death race” è un film che non lascia spazio a sorprese, né in negativo né in positivo. Paul W.S. Anderson, creatore della serie Resident Evil, ha saldamente in mano il comando registico e agisce avendo in mente quello che vuole ottenere: il film sorpassa volontariamente il limite della brutalità e sceglie come scenario una futuribile America, nella quale i carcerati vengono costretti - per mere questioni economiche - a competere tra di loro in un'arena automobilistica. La sconfitta, però, spesso si paga con la morte e a pochi sembra importare che una perfida direttrice di un istituto penitenziario possa “costringere” delle persone a prendere parte queste corse della morte. Il film è dunque uno spettacolo puramente pornografico, che insiste sul carattere più osceno della violenza, senza però andare a scavare nella psicologia umana che determina quello spettacolo. Manca completamente, cioè, quel livello che ci permette di abbandonarci in un mondo immaginario (perché questo è, anche se le intenzioni erano probabilmente altre). Non basta rievocare la ‘chiave’ del videogame per risvegliare nello spettatore l’interesse per una storia che resta piuttosto prevedibile e monodimensionale. Di “Death race” si nota soltanto il ritmo, incalzante e ben costruito se letto nell’ottica della vendibilità del prodotto, insipidamente ‘giovane’ e disorientante se visto nell’ottica di chi non è riuscito ad appassionarsi alla vicenda.
Nessuno dei personaggi sembra ingranare: eccessivamente granitico il protagonista (Jason Statham), limitatamente sensuale la copilota di Frankenstein (Natalie Martinez), sbrigativamente abbozzata la direttrice (Warden Hennessey).
Deludono poi anche le idee. Quelle che ci sono sono ben congegnate, ma alla fine dei conti sono davvero troppo poche e tutte relative agli scontri ‘in pista’. A questo punto la domanda sorge spontanea: non era forse meglio costruire un film più solido fuori dalla pista, relegando la corsa della morte all’ultima parte della pellicola? Così, purtroppo, il rischio-noia è alto e il film resta confinato all’intrattenimento di genere, chiave dignitosa ma non sempre vincente. |