I soldi, la celebrità e le donne non alleviano l’inquietudine di Finn, fotografo di successo tormentato dal vuoto della propria esistenza, vissuta come attesa di una fine inevitabile. Gli incubi straziano le sue notti, spesso insonni, e quando nel silenzio di una stanza vuota il suo sguardo si posa su una Dusseldorf ancora dormiente, accarezzata dal tiepido chiarore dell’aurora, la dolorosa sensazione di solitudine in cui vive si manifesta impietosamente. E se la paura della morte è una semplice idea, l’angoscia di vivere ne è la sua espressione più vera e tangibile, che distrugge la realtà del tempo e si trasforma in pura percezione soggettiva (onirica) della realtà stessa; lavorando con la riproduzione - più o meno artefatta - di questa realtà, il fotografo vive la crisi di chi si interroga sulla vera essenza delle cose, sul loro significato. E Wenders, che palesemente si identifica nel suo protagonista, prova a spiegarcelo, sfortunatamente non riuscendoci.
I temi a lui tanto cari, quali il viaggio o la ricerca di sé, l’essere e il tempo, si con-fondono continuamente nella narrazione, fortemente evocativa e trascendentale, che però compie il peccato mortale di voler attirare l’attenzione su un concetto che prende forma soltanto nel dialogo finale. Come se non bastasse le conclusioni che se ne traggono sono piuttosto fragili e infarcite di luoghi comuni, e lasciano l’amaro in bocca a chi, per 124 minuti, si aspettava ben altro da un maestro del cinema come lui. Tanti autori hanno affrontato questi stessi temi nel passato, Bergman e Antonioni ai quali il film è dedicato ne sono due (splendidi) esempi, e per questo motivo stridono le banalità che infarciscono una sceneggiatura inevitabilmente coraggiosa nell’idea(zione) ma, purtroppo, non altrettanto coraggiosa nella realizzazione. |