Lo spettatore ignaro non entri in sala. O meglio, proprio perché ignaro, entrerà: si troverà faccia a faccia con un film che per lui non ha riguardo, sprofondato in un’ora e mezzo di angoscia crescente, che penetra dagli occhi fin nello stomaco. Aleksej Balabanov lo lascia solo, presentandogli una storia nella quale lui non interviene mai, facendogli dimenticare di essere al cinema. Solo alla fine, quando scrive “1984”, regala un primo (e ultimo) respiro di sollievo, dettato dalla convinzione che di qualcosa lontano nel tempo (e per noi anche nello spazio) si sia parlato. Chi ha visto i film precedenti di Balabanov sa che il postcomunismo non è stato meglio, anzi: l’assoluta mancanza di valori, di morale, di senso della vita, di Stato della metà degli anni ’80 si farà più forte nel caos della caduta di un regime comunque già morto. Ma chi è in sala oggi si trova proiettato nel mondo di 25 anni fa, tra strade desolate tanto nelle campagne quanto attraverso città fatiscenti, i fumi delle fabbriche, ferrovie che sembrano lasciate allo sfacelo, ed un’umanità desolante tanto tra i potenti – gli uomini del partito e quelli della polizia – quanto tra i giovani, il presunto futuro di un Paese senza futuro. L’unico che sembra un minimo interessato agli altri, il professore di ateismo scientifico Artem, finirà per rinnegare le proprie convinzioni presentandosi in chiesa per il battesimo.
L’Unione Sovietica prossima al crollo sono cadaveri di soldati sui cargo di ritorno dall’Afghanistan, trafficanti di alcool e di conseguenza alcolizzati, contadini che sognano di realizzare la Città del Sole e discutono dell’esistenza di Dio, salvo cercare di mettere le mani addosso a ogni ragazza che capita dalle loro parti, appartamenti sporchi abitati da vecchi ben oltre la soglia della follia, con due sole finestre sul mondo: quella su una ferrovia fantasma e la televisione. Ovunque guardano, si perdono. Il futuro non può esistere. |