Lo sguardo dei protagonisti sulla realtà è deformante, distorto: e Kar-wai cerca di comunicarlo allo spettatore.
"Hong Kong Express" ci aveva sbalordito con quelle storie parallele che solo per un attimo si sfioravano, con quegli sguardi insieme colpevoli e innocenti dei suoi personaggi, persi, naufraghi nel loro mondo, eppure ‘vivi’. "Angeli perduti" è invece un'illuminazione, una folgorante visione.
Seguito ideale del film precedente, o meglio parte integrante eppure diversa, questa volta l'autore non sceglie la via dei due episodi vicini eppure separati, due storie ai confini, con gli attimi che si sfiorano. Qui le storie si toccano, mescolano, contaminano quasi inconsapevolmente.
Nessun cineasta riesce come Wong Kar-wai a dare un'idea di narrazione pari al 'flusso'. Flusso narrativo, flusso esistenziale, flusso visivo: il film è come un fiume che scorre, ora delicato ora impetuoso, per le sue sponde infinite. La metropoli, i neon notturni, Hong Kong. La città come luogo dei percorsi esistenziali, delle solitudini.
Non ricordiamo un'immagine diurna di "Angeli perduti", perché le creature che animano le storie di questo film sono anime notturne, angeli della notte che vagano con le loro disperazioni urbane.
Un killer di professione e la sua donna-Agente; la loro non-storia d'amore ha senso proprio in un contesto di tale ‘durezza’, di tale crudeltà. Mai mescolare il lavoro con i sentimenti, ed è dura quando questo avviene. Se Killer e Agent si cercano, Ho invece fa i lavori più strani e incontra Cherry proprio durante uno di questi. E Cherry a sua volta è persa dietro l’uomo che l'ha ormai lasciata per un altro amore. Ed ecco che insieme si mettono alla ricerca di Blondie in un ‘vagare’ che per un attimo li unisce. Ma i personaggi di Kar-wai più si avvicinano tra loro, più si allontanano definitivamente.
La violenza che circonda le storie parallele del film è solo 'ambiente', è il quadro, la scenografia, il 'contorno vitale' dei protagonisti che non sono mai 'schematici' o fintamente profondi, ma sono terribilmente dialettici, complessi, ambigui e sfaccettati. Soprattutto 'vitali', corpi desideranti alla ricerca di un proprio sogno. Perché in definitiva è questo il cinema di Wong Kar-wai, un tentativo costante, una ricerca continua del desiderio, un lungo rincorrere il proprio sogno (perduto).
In questa sua ricerca, il cineasta si avvicina ai personaggi con un uso straordinario del grandangolo come categoria espressiva, vicinissimo ai corpi che però ci appaiono lontani, con le loro anime disperate, irraggiungibili.
Quello di Wong Kar-wai è necessariamente un cinema dei sentimenti, un "cinema dei desideri"; e la ricerca è sempre quella, finale, della felicità.
Premiato al Golden Horse Film Festival, all'Hong Kong Awards e all'Hong Kong Film Critics Society Awards. |