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"Fine pena mai" nasce dal Diario di Antonio Perrone, condannato per motivi di mafia a 49 anni di prigionia e detenuto in stato di isolamento. All’inizio degli anni ottanta Antonio Perrone è il promettente primogenito di una benestante famiglia del sud Italia. Si innamora di una donna, Daniela, che diverrà sua moglie. Insieme sognano una vita all’insegna della conquista dei piaceri più evidenti che una società consumistica promette. Per raggiungerli si trasformano da giovani romantici in protagonisti del piccolo crimine di provincia, fatto di rapine e spaccio di droghe. Arriva un tempo in cui, per mantenere le proprie posizioni, occorre crescere e Antonio diverrà un esponente importante della mafia locale, denominata Sacra Corona Unita. Da protagonista romantico Antonio trasforma il traffico di eroina in uso di eroina e da "eroe negativo" si misura con il ruolo della "vittima", in un crescendo in cui a pagare il prezzo della giustizia con la solitudine saranno i suoi amori più radicali che - come lui, ma separati da lui - dovranno ricostruire la propria identità. "Fine pena mai" è la storia di un sogno che si realizza, per poi disintegrarsi insieme ai suoi protagonisti. |
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Una vita al massimo costa tantissimo
“Hai sempre fatto di testa tua”, dice Daniela al marito cercando di convincerlo a non andare a un appuntamento. “E continuo a farlo”, risponde lui.
Bravo.
Il prezzo della sua ‘vita al massimo’ non è solo le ore di attesa, la paura che nasce, una moglie e un figlio che scivolano velocemente ai margini; è, soprattutto, il 41bis, il carcere duro per i mafiosi. Duro, durissimo: è molto, molto meno del minimo. “Fine pena mai” sembra sottintendere un’attenzione quasi sociale sull’aspetto della pena: non va bene, l’attenzione deve essere rivolta altrove, verso un coglione di provincia che crede di non avere alternative, la cui ammissione finale “io sono come loro” è soltanto dovuta. Antonio, “incapace di provare nulla davanti alla rovina”: adesso ascolta il suono del nulla all’Asinara, 719 ore al mese su 720, e questo suono accompagnerà ancora per i prossimi 34 anni la sua “vista d’interni”.
E’ dal romanzo autobiografico di Antonio Perrone, “Vista d’interni” per l’appunto, che parte questo libero adattamento: la sua voce racconta (a Daniela, agli spettatori), sottolineando il contrasto tra il tempo che prima scorreva a velocità massima e ora sembra fermo, tra il vivere e il ricordare.
Tonio trova la sua dimensione in un piccolo paese del Salento, un territorio, tra la fine degli anni ’70 e l’inizio del decennio successivo, incontaminato, vergine di mafie, di famiglie; è il periodo giusto per la sua esclation. Il periodo sbagliato, sembra adesso lamentarsi: ha scelto di correre, e al capolinea – mancata l’ultima fermata della pallottola – starà fermo 49 anni. Da solo.
Sembra un gioco la trasformazione del gruppetto di amici in una gang, con i primi gesti intimidatori, tra ricatti e rapine. Da qui l’assuefazione da rapine, lo spaccio, la droga come merce ma anche come compagna. Il territorio sarà anche stato vergine, ma non si vede nulla di nuovo.
E’ però importante quest’indagine sulla mafia che meno si conosce, la Sacra Corona Unita: una mafia postmoderna, come sottolineano i registi (Davide Barletti e Lorenzo Conte, alias ‘Fluid Video Crew’), nata e sgominata nel giro di pochi anni. A parte qualche scena didascalica all’inizio e nel finale, la storia è raccontata bene, e l’intenzione di non lasciar cadere il discorso è ammirevole: l’idea, nata durante le riprese, è quella di girare un documentario su Daniela, la moglie di Tonio, figura che nel film oscilla tra il ruolo marginale nelle vicende e la scelta di dare più minuti possibili a un volto noto quale quello di Valentina Cervi. In scena, dall’inizio alla fine, c’è sempre Claudio Santamaria, ormai abituato al ruolo di capobanda… Il film non è particolarmente lungo e i numerosi eventi lo rendono leggero, ma è anche grazie alla bravura di Santamaria che la finzione coinvolge e fa dimenticare l’aspetto meno nobile, la compassione che si viene indotti a provare per un criminale che in questo momento, giustamente, non ha più nulla davanti agli occhi, nulla da ascoltare, niente da vivere se non il ricordo, un ricordo stretto tra quattro pareti senza uscita. Il ricordo di una vita finita. |