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Recensione: La terra (1930)

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La terra
titolo originale Zemlja
nazione Russia
anno 1930
regia Aleksandr Dovženko
genere Drammatico
durata 84 min.
distribuzione n.d.
cast S. Svašenko (Vassilij) • S. Skurat (Opanas) • P. Masoča (Čoma)
sceneggiatura A. Dovženko
musiche L. Revuzki
fotografia D. Demuzki
montaggio A. Dovženko
media voti redazione
La terra Trama del film
In un kolchoz ucraino (siamo nel 1930) i contadini sono stanchi delle tasse che devono pagare ai kulak, i ricchi proprietari, e, grazie alla determinazione del giovane Vassilij, decidono di costituire una cooperativa. Il ragazzo viene ucciso, ma questo non fermerà i contadini, decisi a portare in fondo la loro nuova lotta di classe.
Recensione “La terra”
a cura di Glauco Almonte  (voto: 8,5)
Il terzo lungometraggio del regista sovietico si apre con un’immagine turneriana dello sterminato campo di grano, poi le inquadrature si fanno più strette, dapprima sul grano da mietere, quindi sui girasoli, infine sui frutti sopra gli alberi, il tutto interrotto soltanto dal volto d’una donna: da subito è esplicito il riferimento alla natura madre della vita, alla terra che ne fornisce il nutrimento.
Il protagonista non è Vassilij, né Opanas, suo padre, ma i contadini che, coltivando la terra, permettono a tutti di usufruirne: cambia il mondo attorno a loro, la fiducia nelle regole e nella religione, cambiano i modi di lavorare, ma a contatto con la terra stanno sempre loro (oltre vent’anni dopo Kurosawa concluderà I sette samurai affermando, sulle orme di Dovženko, che i contadini vincono sempre).
Il messaggio panteistico e la lotta di classe si fondono perfettamente grazie ad inquadrature che, sul primo piano d’un personaggio che parla, vanno a cogliere sullo sfondo il movimento del grano ed altri particolari ‘naturali’: le riprese avvengono spesso dal basso così da cogliere il movimento delle nuvole dietro le teste dei contadini; un capolavoro, su questo gioco, la doppia inquadratura del popolo del kolchoz radunato, dapprima le sole teste che si stagliano sul cielo, quindi i corpi, sulla terra, tagliati esattamente dove iniziava l’immagine precedente. Proseguendo sulla strada delle innovazioni dovženkiane lasciano il segno due sequenze con Opanas protagonista: nella prima si volta e parla in camera, commentando la decisione del figlio di creare la cooperativa; dopo la morte di Vassilij, l’immagine di Opanas immobile nella stanza vuota viene sfumata per poi ricomparire per ben due volte, a sottolineare la tragicità del momento.
Proprio le scene dopo la morte del ragazzo sono un salto nel futuro: soltanto a trent’anni di distanza il connubio Nykvist-Bergman riuscirà a ripetere la stessa irreale luce che trasmuta la distesa di grano in un paesaggio ultraterreno, lo stesso gioco di ombre sui volti dei personaggi, nel momento culmine dell’elegia che, a un passo dalla catarsi, si scioglie invece nella grottesca frenesia della processione che rima internamente con l’accelerazione (reale, nella pellicola, ma anche metaforica) portata dal trattore, simbolo del progresso.
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