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Il film è basato su fatti realmente accaduti, raccontati nell’omonimo libro di Marco Nozza. Lago Maggiore, settembre 1943. Un gruppo di 16 ebrei italiani, provenienti dalla Grecia, sono ospiti dell’Hotel Meina di proprietà di Giorgio Benar, ebreo anche lui ma con passaporto turco e quindi cittadino di un paese neutrale. In seguito all’8 settembre, giorno dell’armistizio fra l’Italia e gli Alleati, un reparto di SS capitanato dal comandante Krassler giunge a Meina. |
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Un film per non dimenticare. Hotel Meina è per bocca dello stesso regista romano un “altro capitolo di quella ideale storia in immagini del fascismo e dell’antifascismo che da decenni vado costruendo con film sia tratti da eventi realmente accaduti, sia da opere letterarie”.
In questo caso ad essere raccontata è la storia della strage (una delle tante) di alcune famiglie ebree per mano delle SS, una settimana dopo l’armistizio dell’8 settembre, giorno che sembrava presagire l’immediata fine della guerra e dei suoi orrori; l’occupazione da parte dei tedeschi del lussuoso hotel sulle rive del Lago Maggiore segna invece proprio l’inizio di queste atrocità, che culmineranno con la barbara e vigliacca uccisione di tutte queste persone.
"L’ultimo conflitto mondiale continua a proporsi come fonte inesauribile di storie individuali e collettive. Di “umili” e di “potenti”. E, pur avendo personalmente attinto per molti film a questa fonte, continuo a trovarvi suggestioni e spunti di valore universale e attuale".
Partendo dall’omonimo libro di Marco Nozza, Lizzani porta sul grande schermo questa storia con innegabile onestà intellettuale, ma in fondo riesce difficile intuire la ragione di tale trasposizione: a mancare completamente è un seppur minimo coinvolgimento emotivo (aspetto piuttosto grave, visto l’argomento trattato) o un profilo psicologico approfondito dei protagonisti (che si dividono in maniera elementare e didascalica in Buoni e Cattivi). La forza del cinema risiede (anche) nelle sue immagini, nel suo potere evocativo ed emozionale, altrimenti tradurre il testo di un libro in sceneggiatura è inutile e si rischia, come in questo caso, di fare un’inutile copia su pellicola di qualcosa già scritto su carta.
Il problema è che se a girare l’ennesimo film sulla seconda guerra mondiale è un (bravo) regista che ha più di ottanta anni, è difficile che l’emozione accompagni con forza i fatti raccontati, a meno che questi non facciano parte di ricordi personali legati ad esperienze vissute in prima persona da chi li racconta. Altrimenti il rischio è che ciò che ne viene fuori, come in questo caso, sia più una fiction di stampo televisivo, o al massimo un buon documentario, che non un film drammatico da raccontare, come probabilmente erano le - nobili - intenzioni. |
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