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Turi Arcangelo Leofonte, il ragioniere della mafia, dopo aver accettato di collaborare con la giustizia, facendo arrestare quasi tutto il clan Scalia, e aver scontato una pena di undici anni di carcere duro, si prepara ad uscire per raggiungere l'ultima destinazione, con una nuova identità, da uomo libero... |
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Un film di mafia. Sguardo retrospettivo e 'scomodamente' ereditato. Un affresco subdolo e minaccioso - che si permea della grigia ambiguità della nostra epoca di successi avidamente quanto sbrigativamente consumati: progressivamente disincantato, disumanizzato. Esausto, abbondante di ballate (letteratura) cronachistiche, di quegli 'stretti legami' che finiscono per ipotizzare una doppiezza morale (mosaico e calderone) che contraddistingue l' 'azione talentuosa dell'uomo'.
Nella condensazione estrema di un perimetro omologato (rabbia e tensione), struttura portante ed evidente di un codice referenziale di forme cinematografiche: la finzione/visione - che nel passato si impantana - è quella di saper lasciar correre la cinepresa sui volti dei personaggi più semplici, di saper cogliere il lato più genuino della loro parlata, di non disdegnare gli ambienti più scomodi del 'proprio mestiere'.
L'equilibrio in bilico: la prevalenza della raffigurazione sulla carne, solitudine e violenza stilizzata; icona meticcia di questo racconto vibrante che vive pur sempre all'interno di un cinema di situazione, di schemi collaudati che poco lasciano all'immaginazione ed al mistero del non-risolto, che risultano piuttosto semplificatori e che indirizzano talora il film nel senso di un 'disperato' western, con i nostri eroi soli contro tutti.
Il mestiere delle armi: quello del cinema solidamente ancorato a degli schemi formali sperimentati (all'americana) sia che si tratti di descrivere l'azione, o che ci si preoccupi di circoscrivere l'attore, per coglierne il tagliente bagliore 'crepuscolare'. Un cinema che al tempo stesso, si concede ad implicazioni politiche, esistenziali e morali; tralasciando il lato più ovvio (quello dell'inchiesta, della progressione 'poliziesca') per dedicarsi al privato dei propri personaggi. Ma "Milano-Palermo" è soprattutto un film in cui si sente tutto il peso del meccanismo che l’ha guidato, che lascia fuori dal set, accennato e abbandonato, uno slancio emozionale sempre troppo contenuto (compiaciuto): filmare il 'rituale' mentre lontano in fondo agli occhi si avverte il 'rumore critico' verso una guerra 'finta', lo stato decostruttore (apparente) delle cose, l’opprimente 'filastrocca', traccia cromatica del cinema di genere che sconfina nella fiction televisiva. E la città è tranquilla. |
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News sul film “Milano - Palermo: il ritorno” |
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