La presenza di Luigi Lo Cascio, insieme all’argomento, la Sicilia malavitosa, suggeriscono immediatamente il paragone con “I cento passi”. Diretto da Giordana, Lo Cascio ha interpretato un eroe della lotta alla mafia; diretto da Andrea Porporati, invece, diventa l’orfano dei sobborghi di Palermo, accolto e formato da Cosa Nostra per diventare un uomo d’onore, che più che altro per istinto di sopravvivenza (quanto dall’amore, il regista non dice fino in fondo) sceglie alla fine una vita normale. La Sicilia dei santini, dei matrimoni riparatori e dei riti e miti della malavita organizzata è sempre quella. Nel caso de “Il dolce e l’amaro”, tuttavia, al discorso politico di condanna, compiuta per lo più con uno sguardo dall’esterno, si sostituisce un percorso quasi antropologico, la fenomenologia del picciotto di Kalsa, che ci porta ben più all’interno del meccanismo mafioso. Con l’aiuto della voce narrante del protagonista, che talvolta per la verità dice più di quanto basterebbe, lo spettatore assiste ai primi passi di un piccolo delinquente da strada, alle bravate di un adolescente che si spingono oltre la misura, fino al delitto, inizialmente prova di coraggio, in seguito prassi del mestiere, infine scelta tragica che calpesta gli affetti più cari (inevitabilmente, di fronte alle carneficine, inventate e della cronaca, ci si domanda quale senso e valore vero abbiano i tanto celebrati legami di sangue e d’onore spacciati dalla retorica malavitosa). Non c’è molto di nuovo: e questo è il limite principale della pellicola. Tutto quello che già avevamo visto altrove è comunque raccontato con discreta bravura: il film non è girato male, e la poca evidenza della fotografia non pregiudica la comunicatività delle immagini. Forse un po’ debole il discorso sull’amicizia col compagno di giochi passato dall’altra parte della barricata, e forse la seconda parte del film perde di fascino rispetto alla più fascinosa e avvincente descrizione iniziale dell’ascesa di Saro. Carina invece l’idea della storia d’amore che dura una vita, che, per quanto non riesca ad essere il filo rosso che tiene insieme l’ordito, può piacere soprattutto perché vera, evidentemente sentita dal regista-sceneggiatore. Lo Cascio è perfetto, quasi a rischio di virtuosismo, soprattutto per il suo siciliano stretto che è più compito dell’italiano di molti altri; gli altri attori, di cui molti volti noti (uno per tutti, Renato Carpentieri), riescono chi più chi meno a reggergli la scena. |