Finn Taylor, sceneggiatore e regista dal breve curriculum (almeno finora), mette in scena una commedia che, nella sostanza, rientra perfettamente nei canoni del genere: l’incontro tra un uomo e una donna, i contrasti sul lavoro ma un graduale approfondimento della conoscenza tra i due, l’amore che si palesa con il lieto fine della vicenda lavorativa. La metà delle commedie americane ha questo schema: non è una critica, ma una presa di coscienza della psicologia di produttori e sceneggiatori che impostano i loro prodotti conoscendo a priori l’accoglienza che il pubblico riserverà loro. Una minimizzazione del rischio nell’investimento cinematografico, una scelta condivisibile ma che non porta nulla di nuovo a quella che, a tutti gli effetti, è considerata un’arte.
Quello che varia, o almeno così ci sembra, è il vestito della commedia: “The Darwin Awards” può contare su un cast di primo livello, con protagonisti amati dal pubblico giovane (Joseph Fiennes, la cui immagine è ancora indissolubilmente legata a “Shakespeare in Love”, e Winona Rider, da poco tornata in auge dopo le vicende personali che ne hanno messo in dubbio il prosieguo d’una carriera iniziata alla grande) e comprimari all’altezza, da Juliette Lewis a Chris Penn, scomparso nel 2006 poco dopo le riprese di questo film.
La parte migliore del film consiste però nell’atteggiamento con cui viene portato avanti: con ironia e leggerezza Taylor mette in scena storie grottesche, l’ilarità che suscitano numerose sequenze (l’inizio di quella nella doccia, l’uso della cucchietta, il momento in cui l’idea di un’azione stupida si trasforma in risoluzione) non è mai spenta da momenti pesanti o riflessivi. Taylor sceglie la strada del film comico e non sbaglia: la scelta dei “Darwin Awards”, un premio alla stupidità umana che solo nella morte riesce a raggiungere i suoi vertici, meritava di essere sfruttata bene. E’ divertente, per quel bisogno che ha l’uomo di esorcizzare la morte, l’idea del gesto stupido estremo; è esilarante vedere il rapporto tra questa realtà e Michael Burrows, ossessionato dalla psicologia di questi ‘creativi’ e ridicolo a sua volta agli occhi altrui (dello spettatore, della compagna di lavoro e, soprattutto, della videocamera che lo accompagna). Alla fine risolverà il caso iniziale, troverà un equilibrio nella sua vita e verrà a capo della sua ossessione: il rischio rimane, ma si può minimizzare. Un po’ come questo film, a metà strada tra l’originalità (nello spunto) e non (nello svolgimento), senza correre il rischio dell’insuccesso al botteghino. |