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Ciad. Atim, un ragazzo di quindici anni, parte armato di una pistola alla ricerca dell'assassino di suo padre, ucciso pochi mesi prima della sua nascita nel corso della violenta guerra civile. Atim giunge a N'djména e trova l'uomo che stava cercando, Abdallah Nassara. Colui che si trova davanti, però, non ha l'aspetto di un assassino ma quello del rispettabile e onesto proprietario di una panetteria. Abdallah non sospetta le vere intenzioni di Atim e lo assume come garzone, insegnandogli giorno dopo giorno i segreti della sua arte. Tra i due nasce ben presto un rapporto profondo e l'uomo manifesta al ragazzo la sua intenzione di adottarlo... |
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Per uscire da una guerra, dai suoi crimini impuniti, dal deserto umano che ne consegue, sono necessari grandi gesti. Il perdono, per andare oltre la vendetta. Anche al di là delle legittime esigenze di giustizia. E’ questo il senso di “Daratt”, ottimo film di Mahmet-Saleh Haroun, vincitore del premio speciale della giuria del Festival di Venezia del 2006, evento straordinario, tanto più che al Lido mancava da molti anni una pellicola africana in concorso.
Teatro della vicenda è il Ciad, Paese martoriato dalla guerra civile, che dura con tragica regolarità sin dal 1965. Nel 2005 il governo ha concesso un’amnistia per i criminali di guerra, lasciando impunite stragi e uccisioni indiscriminate. Uno dei tanti orfani del Ciad è il sedicenne Atim (Ali Bacha Barkai). Suo padre è stato ucciso alcuni anni prima, l’assassino vive tranquillamente nella capitale del Paese. Per vendicare il crimine, il nonno di Atim, vecchio e cieco, personaggio che sembra uscito da una tragedia greca, consegna al nipote una pistola, invitandolo a partire. Il giovane lascia il villaggio e dopo un lungo viaggio giunge a N’Djamena. Non ci metterà molto a individuare Nassara (Youssouf Djaoro), l’uomo che ha ucciso suo padre. L’ex criminale di guerra fa il fornaio, ogni giorno regala ai bambini poveri della città qualche pagnotta per sfamarsi. E’ vecchio e sofferente, per parlare utilizza un microfono. Atim si fa assumere nella panetteria e inizia un rapporto molto particolare con Nassara. Lui è lì per ucciderlo, ma inaspettatamente tra mille silenzi carichi di rancore, i due scoprono di essere indispensabili uno per l’altro. Nassara è un uomo spregevole, ma Atim senza mai dimenticare la sua missione familiare, sembra trovare in lui una figura paterna. Per il vecchio, Atim è il figlio che la sorte gli ha negato. Le due fragilità si incontrano, senza raccontarsi la verità, ma scoprendosi indispensabili. Nassara poi tenterà, invano, di adottare il ragazzo. Per Atim è un dilemma, non è facile rinunciare allo scopo del suo viaggio, su di lui ricade infatti la responsabilità della vendetta ordinata dal nonno, ma ogni giorno che passa questo gesto appare sempre meno possibile.
La carica simbolica del film è molto forte. Ambientazione essenziale, nessun cedimento al folklore, dialoghi ridotti all’osso, “Daratt” racconta fondamentalmente del passaggio di un ragazzo all’età adulta attraverso la rinuncia, complessa e mai scontata, della logica della vendetta. E’ questa l’unica via d’uscita per un continente che non riesce a immaginarsi un futuro diverso. La scena finale, che non raccontiamo, è la rappresentazione perfetta di questa speranza. Quello di Mahmet-Saleh Haroun è un film che non si vergogna ad avere una morale, enunciata con forza, ma senza retorica, senza scappatoie drammaturgiche, evitando sentimentalismi, mostrando tutte le difficoltà nell’elaborare le tragedie. Alle nuove generazioni è affidato lo sforzo titanico e necessario della riconciliazione. |