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Il film è un adattamento cinematografico delle memorie di Augusten Burroughs sulla sua esilarante seppur toccante infanzia. Cresciuto negli anni ’70 il giovane Augusten viveva la sua esistenza borghese con un padre alcolizzato e una madre bipolare, poetessa inedita con deliri di grandezza (crede di essere una celebrità). Quando i suoi genitori divorziano la madre di Augusten lo manda a vivere dal suo psichiatra dai modi molto poco ortodossi, il dottor Finch, e la sua famiglia allargata. "Correndo con le forbici in mano" racconta come Augusten è riuscito a sopravvivere agli straordinari accadimenti della sua vita. |
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Biografia semi romanzata dello scrittore di successo Augusten Burroughs, tratta dal suo omonimo bestseller del 2002, “Running with scissors” è una commedia amara sulla difficile arte del crescere, che diventa decisamente un’impresa per un adolescente come il suo protagonista, stretto tra problemi più grandi delle sue poche forze. Nei disastri affettivi di una famiglia apparentemente come le altre Augusten perde la bussola della sua esistenza, per ritrovarla poi incredibilmente in una gabbia di matti come la casa dell’analista di sua madre, il “patriarca” dottor Finch, l’esempio negativo di genitore che gli consentirà di separarsi dalle radici e diventare adulto.
Il regista esordiente Ryan Murphy mette in scena pensieri e parole di Burroughs (anche autore del soggetto) fedele allo spirito del romanzo, e quindi incorre nelle medesime riserve che si possono muovere ad esso: soprattutto l’insufficiente capacità di coinvolgere lo spettatore in un racconto che non decolla mai, come sospeso in una apatia o viziato da un controllo delle immagini che impedisce loro di essere veramente significative. Le sequenze teoricamente più emozionanti lasciano in realtà un senso di carenza di vitalità che mette in discussione l’ispirazione degli autori: e nemmeno gli interpreti, per quanto bravi, riescono a dare vigore alla rappresentazione. La sceneggiatura è ben scritta, e sa essere divertente; la regia è intelligente ed esteticamente efficace in più di una occasione. Manca però uno scatto che consentirebbe al film di restare impresso nella memoria: e molti minuti scorrono via indolori, purtroppo.
Una riflessione a parte merita poi il tema della malattia mentale affrontato da Burroughs: condividendo in questo un pensiero diffuso nella cultura americana, lo scrittore oscilla tra la raffigurazione della pazzia nei suoi aspetti più appariscenti e distruttivi, scegliendo così un angolo di visuale piuttosto angusto, e la sua in qualche modo passiva accettazione come dato di carattere ineliminabile. Tra il rispetto per la conoscenza, anche medica, e la sua cinica denigrazione il film non trova un equilibrio: per cui può tranquillamente mostrare un ricovero coatto e contemporaneamente dileggiare lo psichiatra truffatore con i suoi inquietanti mocassini bianchi. L’ironia diffusa riesce a sopperire solo in parte a queste discontinuità: l’impressione di indeterminatezza della ispirazione che ne deriva è per l’appunto ciò che lascia meno soddisfatti dopo la visione. |
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Commenti del pubblico |
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