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Il giovane Claude Bukowski lascia l'Oklaoma e va a New York per arruolarsi tra i marines destinati al Vietnam. A Central Park conosce un simpatico hippie, George Burger, e i suoi amici Jeannie, Woof e Lafayette, che, non essendo riusciti a fargli cambiare idea, lo convincono almeno a passare in loro compagnia i due giorni che gli restano prima di indossare la divisa. Poiché Claude vorrebbe rivedere Sheila, una ragazza incontrata nel parco, George organizza un'allegra incursione a una festa di ricchi in cui, per l'appunto, c'è anche la giovane. La trovata di George causa una zuffa: interviene la polizia ed egli finisce in prigione con i suoi amici. Ne esce per primo, grazie ai pochi risparmi di Claude, e si procura i soldi per liberare anche gli altri. Dopo una notte trascorsa a bagnarsi in un laghetto, a litigare e riappacificarsi, Claude parte per il campo. Sapendo quanto egli ci tenga a rivedere Sheila, George raggiunge la base d'addestramento, insieme alla ragazza e agli amici proprio il giorno in cui arriva per i marines, l'ordine di partire per il Vietnam. Vittima del suo stesso ingegnoso piano, escogitato per consentire a Claude e a Sheila di incontrarsi malgrado i divieti, George parte al posto dell'amico e muore in guerra. |
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Seconda metà degli anni ’60, contestazione giovanile, figli dei fiori, new-age, ma soprattutto l’opinione pubblica americana che monta contro la guerra in Vietnam. A Broadway debutta, nella primavera del ’68, “Hair”. Nel corso degli anni si presenta diverse volte l’occasione di portare sul grande schermo questa commedia musicale: il primo a rifiutarla è George Lucas; chi l’accetta, invece, è Milos Forman, che ne è rimasto affascinato assistendo per caso a una rappresentazione teatrale (la stessa primavera del ’68 ha segnato la vita – e la carriera – del giovane regista ceco che fugge negli Stati Uniti).
Sono passati però più di dieci anni: l’operazione di Forman non ha niente a che vedere con la contestazione al governo americano, di fondo è una semplice trasposizione cinematografica che porta un messaggio forte contro la guerra, il militarismo e la retorica della patria.
La fotografia dell’America è la stessa che conosciamo oggi: il paese è spaccato in due, da una parte le città della costa, una mentalità più aperta, uno sguardo sul mondo più elastico; dall’altra, l’entroterra conservatore, tradizionalista, culturalmente arretrato. Affiancando questo contrasto a quelli tra ricchi e poveri, tra bianchi e neri, si ha uno specchio fedele di chi erano le centinaia di migliaia di ragazzi americani che combattevano in Vietnam.
Tanto Claude quanto Berger sono frutti della terra nella quale crescono: è inevitabile che il primo abbia meno spessore del secondo (in realtà Claude sembra averne, ma lo perde man mano che il film entra nel vivo), che si dimostra un gran bel personaggio oltre ogni premessa.
Forman si avvicina a loro dando l’impressione di non voler interferire: dà molto nei primi minuti, con l’eccezionale esecuzione di “Aquarius” a Central Park e l’inseguimento a cavallo. Poi li lascia andare per la loro strada, come se si limitasse ad esser testimone di un percorso comune di persone che, per la loro natura, tenderebbero a prendere strade diverse.
Regista e personaggi sembrano spartirsi il film, con i ragazzi intenti a portarne avanti la trama e Milos che prende il sopravvento nelle molte scene di stacco – si potrebbe dire di contorno, se non stessimo parlando di un musical: l’immagine dall’interno della chiesa che si apre su Claude e Sheila, inserita nella sequenza allucinata di Claude in mezzo alla folla, è spettacolare.
L’ultima parte è prevedibile, ma “Hair” non poteva chiudersi altrimenti: nella distesa di croci in cui i suoi amici piangono Berger, Forman piange le vittime della stupidità umana che risponde ai nomi di ‘patria’ e di ‘dovere’. |
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