Non è poi così agevole definire questo “Il velo dipinto”. Per alcuni apparirà un ragionato melodramma che prova a indagare sulle dinamiche di coppia, in particolare quelle matrimoniali. Per altri sarà un interessante spunto per indagare sul colonialismo e sulle differenze culturali/ambientali tra occidente e oriente. Per altri ancora si potrà interpretare come una curiosa analisi della paura, ma anche come una riflessione che scardina il concetto, romantico e prettamente femminile, di amore come passione vissuta senza mediazioni e profondamente isolato dalla complessità del reale.
Alla base di tutte le idee sulle quali poggia il racconto, c’è un libro piuttosto intenso – “Il velo dipinto” per l’appunto – scritto da William Somerset Maugham, romanziere britannico del primo ‘900 le cui opere hanno ispirato numerose trasposizioni cinematografiche (tra le più recenti “La diva Julia”, “Una notte per decidere”, “Il filo del rasoio”). Una volta assoldato uno sceneggiatore come Ron Nyswaner, che molti consensi aveva ottenuto con “Philadelphia”, non sarebbe dovuto essere troppo complicato ottenere un film di respiro su temi fondamentalmente stimolanti. L’impressione generale, tuttavia, è che, pur avendo un’idea forte alla base, al film manchi quello slancio che permette allo spettatore di riflettere su sé stesso, cogliendo ogni singola tipologia di correlazione. Lo stile, abbastanza curato ma sempre troppo equilibrato, fonde e disegna splendide vallate e drammatiche realtà della Cina degli anni ’20, ma non permette di catapultarci oltre il velo per scoprire pienamente ciò che cèla.
Sia chiaro, le intenzioni sono ottime e gli argomenti tirati in ballo sono pericolosi e insoliti. Ciò che non si può fare a meno di rimproverare all regista, però, è di non essere riuscito a trasformare la storia in un manifesto sull’essenza della vita e sull’interpretazione dell’amore più lungimirante e avveduta del panorama cinematografico moderno.
Il sapore antico che permea il susseguirsi delle scene punta giustamente sulla potenza del tempo, sulla pazienza e sulla resistenza ma soprattutto sul perdono e sulla cura di quello che ci circonda. Lo schema di partenza, tuttavia, rischia le ripetizioni e una mancanza di scorrevolezza e articolazione che incide necessariamente anche sulla gestione degli attori: Edward Norton gioca efficacemente con le sue capacità migliori, ma manca del necessario feeling con la ‘sintetica’ Naomi Watts, che continua ad alternare buone prove (“Mulholland drive”) ad altre piuttosto modeste (“King Kong”). |