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Pascale è una donna energica e ancora attraente, che vive in una fattoria di campagna con i figli Thierry e Fran?ois. Sono passati tanti anni dal giorno in cui ha ottenuto la separazione dal marito e ora la sua vita sembra apparentemente tranquilla e felice, fatta di piccole gioie quotidiane e del rapporto sincero e intenso con i due figli, ormai grandi ma non ancora pronti ad affrontare la vita da soli. Nel momento in cui Pascale tornerà a vedere riflessa nello specchio l’immagine di una donna e non più soltanto quella di una madre, le scelte saranno dolorose e fatali, per tutta la famiglia. |
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«Ai nostri limiti». Questa la dedica con cui Joachim Lafosse apre il suo ultimo lavoro. Un film profondo e intimista fino all’osso, che guarda, penetra e restituisce tutto come uno specchio: vivo e spaventosamente viscerale.
Registro corale e toni drammatici sono gli espedienti per raccontare una storia ambientata in una fattoria della campagna francese. In questa casa luminosa la calma quotidianità con cui Pascale (una Isabelle Huppert schietta e penetrante) riempie il suo tempo e circonda i suoi due figli gemelli, diventa protagonista della vicenda, più degli stessi personaggi. Thierry e François sono i due fratelli, opposti nel carattere ed ancora legati alla figura paterna che il divorzio, anni prima, ha allontanato dalla famiglia. Quella che Lafosse traspone sul grande schermo è un’attenta analisi di rapporti famigliari, ritratti intorno ad un tavolo, davanti ad uno specchio e nei momenti di intimità, nel riflesso di un’esistenza fatta di piccoli gesti, di confidenze e di consigli, in cui inevitabilmente sono destinate ad apparire ombre inconciliabili, che li porteranno lontani e forse per sempre. Una dimensione palpabile fino agli odori e ai rumori, che la stupefacente sincerità dei dialoghi, rende ancora più intensa.
La macchina da presa sceglie dove posizionarsi e sta ferma, in dei tratti sembra tenuta a mano ed oscilla. Lafosse pretende tutto dagli attori: lui colloca l’obiettivo e delimita uno spazio, come un palcoscenico teatrale, loro lo invadono, si muovono, stanno in silenzio o escono di campo e scompaiono, lasciando un vuoto che diventa narrazione. I luoghi tornano, si ripetono le inquadrature, le angolazioni da cui sono costruite; a volte cambiano i personaggi che le occupano, altre rimangono gli stessi, altre ancora a cambiare è solo la luce del giorno o uno stato d’animo: tutto in un continuo riproporsi di azioni e in un crescendo di rivolte e allontanamenti.
“Proprietà privata” scuote all’interno e dove rallenta in un’acuta immobilità stilistica lo fa per riflettere l’immobilità di ognuno di non riuscire ad agire di fronte alla realtà. Solo sul finale l’intonazione cambia e la staticità è sostituita dal dinamismo: l’occhio esperto di Lafosse retrocede, per lasciarsi alle spalle tutto ciò che ha visto, come una danza tetra fatta di immagini e di una musica marcata e disturbante, implacabile come la vita. E questo è un film che preziosamente trasuda vita. |