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L'universo di Harold Crick, agente del fisco, viene sconvolto quando inizia a sentire una misteriosa voce narrante che fa la cronaca in diretta della sua vita. La misteriosa narratrice è Kay Eiffel, una scrittrice in crisi alle prese con il suo ultimo romanzo, del quale Harold è il protagonista. Ad aggiungere disagio al povero Harold è il tragico destino che Kay ha in mentre per l'eroe del suo libro. Il 'protagonista' a questo punto cerca conforto nell'aiuto dell'eccentrico dottor Jules Hilbert e tra le braccia di Ana, una delle 'vittime' dei suoi controlli fiscali... |
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Lontana dai riflettori, la commedia di Marc Forster “Vero come la finzione” esce in Italia in poche sale, destinata a sparirne presto. Destino ineluttabile, se si rapporta questo piccolo film alle aspettative – per non dire le pretese – del pubblico: nel pieno rispetto dei canoni, senza alcun eccesso, “Stranger than fiction” (il titolo originale è il contrario di quello italiano, ci si dovrebbe chiedere perché, se non fosse una – pessima – consuetudine) scorre linearmente, preferendo la politica dell’evoluzione logica a quella dei colpi di scena.
Lo spunto è bello, Harold che si rende conto di essere il protagonista di un romanzo è allo stesso tempo il personaggio che si accorge di essere un uomo reale: la critica italiana, rapida nell’individuare in Calvino il riferimento letterario, dovrebbe piuttosto guardare a Queneau, ai suoi meta-personaggi e alla fuga di Icaro dalla sua trama. In questo caso, però, la struttura di Harold non è quella di un personaggio, ma quella di un uomo che si accorge di cosa sia la vita solo nel momento in cui non si sente più padrone di se stesso e del proprio destino. L’interazione con Kay, autrice di “Morte e tasse” (non è un caso il riferimento a “Vi presento Joe Black”, tema di fondo e lavoro del protagonista sono gli stessi) del quale Harold è il protagonista, lo smarrimento di fronte a un destino rivelato, la ribellione e l’accettazione del fato, a ben vedere non sono altro che le fisiologiche reazioni dell’uomo di fronte alla morte ed il suo bisogno di qualcuno o qualcosa, estraneo, che lo convinca che è giusto così (l’invenzione del divino, in poche parole).
Le vicende di Kay di fronte alla scoperta del proprio personaggio, invece, dal punto di vista interno sono semplicemente propedeutiche al lieto fine; da quello esterno sono gli indizi per lo spettatore che, a differenza del protagonista, capisce che sta assistendo a una commedia e che qualcosa deve succedere. Harold che chiede l’ora per strada per rimettere il suo orologio (che è dichiaratamente il fulcro del romanzo) e la frase clou ‘se solo avesse saputo’ riferita a un personaggio che non è per niente ignaro, sono gli indizi (troppo precoci, forse) dei due piani della soluzione, quello della trama del romanzo e quello delle scelte della scrittrice.
Una commedia semplice, come ormai non siamo più abituati a vedere, dai tempi perfetti tanto da passare inosservati, con i protagonisti tutti molto misurati, ad iniziare da Emma Thompson che pure interpreta una scrittrice in crisi, fino a Dustin Hoffman, punto di convergenza tra l’Harold persona e quello personaggio, pacato in ogni sua reazione al punto di rivelarsi per quello che è, il personaggio di un film.
Una misura smisurata: per non voler essere troppo, rischia di non essere abbastanza. |
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