In attesa di vedere completata la trilogia sull’America (“Dogville”, “Manderlay” e l’ultimo capitolo “Washington”), Lars von Trier sceglie la via della commedia. La cosa, per chi conosce la severa filmografia del regista danese, risulta piuttosto spiazzante. Per sua stessa ammissione, però, “ogni buona commedia non è mai innocua” e “Il grande capo” non può di certo sfuggire a questa fondamentale regola cinematografica...
Finita l’era del Dogma95 e tanto per complicarsi/complicarci un po’ le cose, per questo film von Trier ha deciso di utilizzare una nuova tecnica di ripresa cinematografica: l’Automavision. Non spaventatevi, dunque, se vi troverete di fronte a “fotografie” tecnicamente poco giustificabili, è tutta colpa di un computer che gestisce casualmente le inquadrature. O meglio, è tutta colpa del sadico regista, che però ama farsi sentire e scandisce ritmicamente una sceneggiatura non sempre coinvolgente e scorrevole, ma certamente tagliente e intelligente.
Tutto inizia in un modo fortemente inconsueto: Lars von Trier è riflesso nei vetri del palazzo nel quale si svolgerà tutta la vicenda che ci apprestiamo a vedere. Una voce fuori campo ce lo fa notare, ci spiega i meccanismi della commedia (giochi di “specchi”?) e ci invita a non “riflettere” eccessivamente, godendoci più che altro lo spettacolo. La sua totale irriverenza nei confronti dello spettatore e del cinema precostituito è, in realtà, un modo di esorcizzare la stessa arte cinematografica. Perversione e malvagità sono, dunque, due strumenti in mano a un regista che questa volta ha fatto finta di nascondersi ma, in verità, attende solamente una nostra (logica) reazione.
Si procede così, lungo un cammino volontariamente prevedibile nella sua struttura ma imprevedibile nei suoi sviluppi più significativi. All’origine di tutto c’è l’incapacità di Ravn di prendersi le proprie responsabilità di capo d’azienda di fronte ai suoi dipendenti. Egli decide, dunque, di “creare” un fittizio e invisibile grande capo, sul quale riversare ogni tipo di malumore aziendale. L’entrata in scena di un discutibile attore, assoldato per interpretare il capo in una trattativa di vendita, scatena però una serie di meccanismi surreali che ci accompagnano fino al pregevolissimo (un)happy-end.
La riflessione più ovvia e giusta è certamente sui ruoli/personaggi, lavorativi e non, di cui tutti noi siamo schiavi e sull’incredibile velocità con la quale si cambia per approfittare di una situazione egoisticamente vantaggiosa. Ma sono apprezzabili anche le sarcastiche prese in giro del “gioco della recitazione” (e del metodo Stanislavskij), dell'incomprensibile e intangibile mondo informatico e del rapporto (a quanto pare) particolarmente aspro tra danesi e islandesi.
L’impressione generale, ad ogni modo, è che l’arrivo dei 50 anni abbia proiettato il regista danese in una nuova fase lavorativa e personale, apparentemente ancora in via di definizione. All'interno del film viene asserito che “l’idea è Dio, anche se fosse Hitler lo scrittore”. Quello che von Trier si dimentica di aggiungere, però, è che non tutte le idee sono allo stesso livello. E “Il grande capo” è un film godibile, ma certamente non è “Dogville”. |