|
|
"Vitelloni" vengono chiamati, nelle città di provincia, quei giovani di buona famiglia che passano la loro giornata nell'ozio, tra il caffé, il biliardo, la passeggiata, gli inutili amori, i progetti vani. Tali sono, nella loro piccola città, cinque amici: Fausto, Moraldo, Alberto, Leopoldo, Riccardo. |
|
|
|
Se escludiamo le partecipazioni ad alcuni film collettivi negli anni immediatamente a ridosso del 1953, “I Vitelloni” si può definire l’opera seconda di Federico Fellini, ed anche il suo primo successo di pubblico e di critica (Leone d’argento a Venezia in quell’anno). Con qualche elemento di continuità rispetto al precedente “Lo sceicco bianco” ma decisamente meglio riuscito, il film è riconosciuto da larga parte della critica come uno dei più sinceri e dei meglio riusciti del regista di Rimini, oltre che quello che forse più degli altri ne sintetizza la poetica o, diciamo così, la canonizza per la prima volta, cosicché in tale prospettiva le opere successive possono definirsi, per restare nella metafora, come virtuose variazioni sul tema. Questo è sostanzialmente vero, ma è anche evidente che nei “Vitelloni” Fellini è influenzato dalla poetica neorealista, particolarmente laddove accenna ad alcune note patetiche e di analisi sociale che contrastano con la vena intimista e fantastica che del suo cinema rappresenta l’anima più vera e migliore; due esempi su tutti, la descrizione della misera condizione sociale della famiglia di Fausto (Franco Fabrizi, non indimenticabile, in una parte che solo pochi anni dopo sarebbe stata di Marcello Mastroianni) e le sciagure sentimentali della sorella di Alberto. Chiaro che per un regista agli esordi sia difficile evitare il confronto con il main stream del cinema italiano di quegli anni; nondimeno sembra di poter dire che da questo punto di vista il film palesi qualche debolezza narrativa ed estetica. Dove invece “I Vitelloni” ritrova intatta tutta la sua forza, anche a decenni di distanza, è sotto il profilo narrativo: scritto da Fellini stesso, Ennio Flaiano e Tullio Pinelli, il film è straordinario per la capacità di tratteggiare con acume le vite dei cinque ragazzotti mai cresciuti, impenitenti sciupafemmine, allergici al lavoro, annoiati ma anche spaventati da una vita allo stesso tempo vuota e impervia, che essi preferiscono canzonare piuttosto che affrontare. Ne è il simbolo il personaggio di Alberto, interpretato da un Sordi forse ai suoi vertici di ispirazione: gigione ma disperato, moralista e vigliacco, protervamente intento a prendere in giro il mondo per ingannare se stesso, rivela il pianto celato del suo animo nella sequenza memorabile della fine dei festeggiamenti del carnevale, lungo le strade e nelle piazze vuote della città che ricordano qualche quadro di De Chirico. Eminentemente felliniana in questa descrizione di una umanità clownesca e fallimentare, la pellicola lo è anche per altri aspetti macroscopici, a partire da una scenografia piena di trovate brillanti, con una Rimini spazzata dal vento invernale e con le spiagge deserte che rende perfettamente il clima crepuscolare in cui i protagonisti sono immersi (e che è stata ricreata senza girare in loco nemmeno un fotogramma), e da una regia in più occasioni geniale: facile citare la scena finale, con la macchina da presa che si allontana dalla città e dalle camere da letto dei vitelloni, fermi, addormentati nelle loro immobili vite, seguendo il treno con cui Moraldo, alter ego del giovane Fellini, parte per il suo destino ignoto. Proprio nel personaggio di Interlenghi il regista romagnolo racchiude l’altro tema centrale del suo cinema, quello autobiografico; ed è con sicura commozione che Fellini descrive il mondo della sua giovinezza, con una partecipazione che contagia lo spettatore ad ogni visione. |
|