Sul nido del cuculo, l’ospedale psichiatrico diretto da Miss Ratched, volano in diciotto: da Billy a Cheswick, a Martini, a Taber, quando Randle si fa rinchiudere per evitare il carcere trova una comunità sì di matti, ma soprattutto di repressi.
Partendo dal presupposto che non ci sia nulla che non vada nel suo cervello, Randle affronta il sistema-manicomio come una società ‘normale’, con spirito di contestazione ma anche di innovazione, deciso a rendersi il ‘soggiorno’ il più piacevole possibile. Niente di più contrario alla rigida direzione dell’ospedale: Randle si scontra con Miss Ratched, figura dittatoriale all’interno della struttura, non perché non sia pazzo (come dimostreranno, a modo loro, le ribellioni di Cheswick, di Billy e di Bromden, l’indiano), ma perché non accetta di piegarsi. Verrà spezzato, attraverso la lobotomia, perché rappresenta il disordine (nemico di ogni dittatura), perché è riuscito a portare dalla sua parte gli altri pazienti e, fattore decisivo, per scaricare su di lui il senso di colpa che Miss Ratched si rifiuta di provare dopo il suicidio di Billy.
Questo, agli occhi del governo dell’ospedale psichiatrico. A quelli degli altri pazienti, Randle rappresenta una novità, uno stimolo intellettuale e fisico, la rinata consapevolezza che la vita non è finita al momento del ricovero, congelata in un’eterna ripetizione del quotidiano – indotto – fino alla morte. Randle è felicità infantile e speranza profonda allo stesso tempo.
A rimarcare il suo ruolo di estraneo al sistema, due brevi momenti musicali che si ripetono prima del suo arrivo e subito dopo la lobotomia, con scene di vita quotidiana dell’ospedale per rappresentare il corretto (il punto di vista, ripreso in campo medio, è quello dell’entità-manicomio) scorrere del tempo.
L’importanza di ogni singolo paziente, che sfugge alla direttrice in nome d’una democrazia di facciata, emerge paradossalmente nelle splendide scene corali, nelle quali, ognuno a suo modo, si litiga, si ride, si gioca, si fa baldoria: si riesce ad interagire con la vita, un po’ meno schematica e sicuramente meno monotona di quanto fosse prima dell’arrivo di Randle.
Nicholson, rivisto alla luce della sua carriera fatta di interpretazioni sopra le righe, deformazioni facciali e sguardi assassini, è straordinario nel controllo del personaggio, prorompente ma ancora non eccessivo; Louise Fletcher, praticamente all’esordio, non è da meno nella parte della direttrice che da autoritaria si trasforma in sadica, ma è tutto il cast che si esprime ad alto livello, tutti matti più che credibili, tra un Danny De Vito alle prime armi e l’esordio di Christopher Lloyd in un ruolo così azzeccato che non riuscirà più a scrollarsi di dosso.
Il finale, pur sfiorando l’autocompiacimento per una soluzione forte e ai limiti dell’inverosimile nell’interpretazione, è meraviglioso. |