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Per Francisco Goya, pittore spagnolo tra i più celebri di tutti i tempi, il 1792 è un anno pieno di eventi, sia artistici, sia sentimentali. La sua musa ispiratrice Ines da parte è arrestata dall’Inquisizione che la accusa di eresia. Il nesso tra il pittore e il Santo Uffizio è frate Lorenzo, integerrimo membro dell’Inquisizione... |
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Matti, puttane e artisti compongono l’affresco (è proprio il caso di dirlo) di Milos Forman.
Con una citazione di “Viva la muerte” – la cantilena dei bambini finale toglie ogni eventuale dubbio – si apre “Goya’s Ghosts”, ultima opera del regista ceco: i disegni di Francisco Goya y Lucientes passano al vaglio del Santo Uffizio, i presunti protagonisti rispettivamente del titolo originale e di quello italiano. In realtà i protagonisti del film sono altri: Ines principalmente e, di riflesso, Frate Lorenzo. Goya è soltanto lo strumento del regista: con i suoi occhi, e attraverso questi con il suo pennello, il pittore assiste agli eventi più grandi come ai più insignificanti nella storia della Spagna a cavallo tra XVIII e XIX secolo.
Ma la sua arte non è neanche marginalmente al centro del discorso, come lascerebbe ipotizzare un precedente quale “Amadeus”: Goya è pittore di corte all’inizio del film e il suo genio, anche quando meno apprezzato come nel ritratto della regina, non è mai messo in discussione. Lo è invece il suo carattere: Lorenzo gli dà della puttana, ruolo al quale è relegata (siamo nel pieno della Guerra d’indipendenza) tutta la popolazione spagnola; ha ragione, includendo se stesso nel novero per quel che riguarda i suoi trascorsi nel regno. Ma il Lorenzo che sta parlando se ne tira fuori, dall’alto dei suoi nuovi ideali di libertà e uguaglianza, a costo della vita. Il suo mancato pentimento è un gesto che non cambia però il giudizio sulla persona, ambiguo paladino delle cause sbagliate (e anche perse, perché quando l’Inquisizione torna al potere lui è dall’altra parte).
Ines, il modello attraverso il quale Goya esprime più volentieri le sue idee, è usata allo stesso modo da Forman, che se ne serve per portare avanti le sue tematiche ricorrenti: la breve scena nel manicomio non è centrale nel film, ma è il prosieguo di un discorso iniziato più di 30 anni fa.
Spingendoci forse un po’ troppo oltre nell’interpretazione, Ines è la protagonista in quanto incarna la Spagna di allora, resa schiava dall’Inquisizione, apparentemente liberata da Napoleone ma in realtà da questi gettata nella pazzia, che con la fine della guerra si attenua ma non scompare (una pazzia che un secolo dopo troverà nuove forme nella guerra civile e, successivamente, nel franchismo).
Natalie Portman è pienamente all’altezza delle richieste di Forman, brava non solo ad interpretare la donna distrutta da 25 anni di prigionia, irreversibilmente dissociata dalla realtà, ma anche la giovane aristocratica che si destreggia tra formalità imposte e divertimenti boccacceschi.
La sua interpretazione però, unita a quelle comunque valide di Javier Bardem e Stellan Skarsgård, va a comporre un quadro riuscito ma del quale non si capisce, fondamentalmente, il motivo: “Goya’s Ghosts” lascia perplessi perché nei dettagli mantiene un livello degno della (giusta) fama del suo autore, ma non riesce a comunicare un senso complessivo che vada oltre la storia di una matta, un artista e 12 milioni di puttane. |