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Kabul, regime talebano. Maria, una bambina di dodici anni, per mantenere la famiglia rimasta senza maschi, si taglia i capelli e si traveste da uomo, facendosi chiamare Osama. Scoperta e imprigionata, la ragazza viene condannata alla lapidazione, ma poi graziata e affidata a un vecchio mullah, una specie di orco, che la porta in casa insieme alle altre mogli. |
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"Non posso dimenticare, ma posso perdonare".
Quando l'identità viene offuscata dalla ferocia di omologazione, possono nascere mostri.
"Osama". Un nome che puzza d'odio, di crudeltà, di morte.
Realizzato grazie al supporto della società di produzione del regista iraniano Mohsen Makhmalbaf, "Osama" è il primo film afghano realizzato dopo il regime talebano; un potente film di denuncia sulle orribili vessazioni perpetrate dai talebani su tutta la popolazione femminile dell’Afghanistan, prima che le Nazioni Unite legittimassero l’attuale governo di transizione.
E' la storia di coloro che hanno perso la loro identità, ed è la storia di una ragazzina e del fardello di ingiustizie e assurdità religiose che è costretta a portare sulle spalle.
Racconta il terrore, in un momento in cui la gente aveva paura della sua stessa ombra.
La pellicola è un crescendo emozionale, ogni sequenza ti coinvolge e ti sconvolge più della precedente, fino ad un finale carico, triste e bellissimo dove una sola immagine riesce a raccontare secoli di oppressione e sofferenza.
Un'opera che, come un castello di sabbia, è fatto di poche cose, ma, come un castello di pietra, reca su di se le tracce della sua storia e si erge a documentare qualcosa che ci auguriamo sia morto per sempre.
Ma al di là della vicenda narrata, che dovrebbe far inorridire qualsiasi coscienza democratica, anche sul piano puramente registico, il film debutto di Barmak fornisce un notevole spunto di riflessione. A partire dalla scelta di attori non professionisti.
In Italia avvenne lo stesso dopo i disastri lasciati dal dopoguerra.
I neorealisti per eccellenza, Roberto Rossellini e Vittorio De Sica, ne fecero largo uso in molti loro film.
Per cui viene da pensare che l’esigenza della verità, del "pedinare la realtà", si presenti come ricorso storico costante a prescindere dal periodo in cui scaturisce, purché esso abbia come denominatore comune la liberazione da una dittatura, o comunque da una schiavitù intollerabile.
Dunque, se questo è vero, Libertà fa sempre rima baciata con Verità.
Chissà se quelli che oggi giocano ai soldatini, con i partiti di plastica, lo capiranno mai?
Vincitore "Camera d'Or" - Menzione Speciale al Festival di Cannes 2003.
Vincitore del Golden Globe 2004 come miglior film straniero.
Vincitore "Medaglia Fellini" dell'UNESCO. |