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Un giovane insegnante romano, Marco Brioni, accetta l'incarico annuale in una scuola elementare in Sicilia. Giunto nel paesino, Marco conosce il piccolo Salvatore, un bambino rimasto orfano di entrambi i genitori, che provvede al sostentamento della nonna Maria e della sorellina Mariuccia andando a pesca e lavorando nella serra di pomodori che era di suo padre. Salvatore non ha tempo per frequentare la scuola, così Marco decide di fargli lezione a domicilio. Col tempo i due diventeranno inseparabili... |
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“Sì, c’è il sole, c’è il mare, ma non è come quando siamo venuti qui in vacanza”. Il fulcro della comunicazione tra chi ha lasciato Roma per vivere e lavorare nella realtà di un paesino siciliano, e chi l’ha lasciata solo da turista, per tornarvi alla fine dell’estate, è il contatto con una vita diversa, che non si può penetrare rimanendone all’esterno. Lasciata la città, Marco, maestro elementare, impara non solo ad usare le mani (nel senso positivo del termine), ma ad apprezzare questo nuovo ‘strumento’. E’ lui, Marco Brioni da Roma, il vero protagonista: patisce le problematiche di questa nuova realtà e cerca di cambiarle, al tempo stesso si adatta e cerca che gli altri si adattino a lui. Salvatore è semplicemente lo strumento attraverso il quale Marco si evolve: in grado di provvedere da solo per sé, per la sorella e per la nonna, trova nel maestro una persona con la quale interagire, ma non si lascia modellare da lui. Soltanto nel finale, quando con pessimo gusto l’immagine di Marco viene sovrapposta a quella del padre morto, Salvatore cambia qualcosa nella sua vita, ma si tratta semplicemente della sostituzione di una figura già esistente, quelle del genitore, con un altra persona. Nessuno sconvolgimento, dunque, a difendere le scelte (egoistiche) di Marco contro quelle dell’assistente sociale: viene da chiedersi, a questo punto, che cosa voglia dire il titolo.
Si parla della violenza delle istituzioni, che usano lo stesso, freddo metro di valutazione in ogni caso; si parla di un bambino che ha visto morire il padre sotto i suoi occhi e che rinuncia alla propria infanzia per mandare avanti una famiglia; si parla di un paese chiuso, nel quale la gente pensa a se stessa e cerca di delegare alla ‘società’ le responsabilità che non vuole prendersi. Ma la vita di Marco, la vittima, quello che dovrebbe far riflettere su come possa essere dura l’esistenza, è un pessimo esempio: a parte il dolore iniziale, che è il pretesto del film e non può esserne la costante giustificazione, non c’è sofferenza, non ci sono difficoltà, non ci sono cambiamenti; per essere un orfano in un paesino di pescatori e contadini, Marco se la passa bene lavorando serenamente, ed a un certo punto ha la fortuna di incontrare una persona che decide di aiutarlo, di fargli da amico, da insegnante e da padre. Che decide di rinunciare alla sua vita precedente, alla sua fidanzata, per chiederne l’affidamento (e ottenendolo istantaneamente).
Considerando anche la riabilitazione finale dell’assistente sociale e perfino del boss del luogo (molto bravo comunque Giannini, il migliore del cast, e va elogiata anche la fotografia di Gino Sgreva – molto meno la scelta della canzone iniziale e finale), questa è una favola, non è la vita. |