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Recensione: Alle cinque della sera

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Alle cinque della sera
titolo originale Panj é asr
nazione Iran
anno 2003
regia Samira Makhmalbaf
genere Drammatico
durata 105 min.
distribuzione Bim Distribuzione
cast A. Rezaie (Noqreh) • A. Yousefrazi (Il padre) • R. Mohebi (Il poeta) • H. Amiri (La cognata)
sceneggiatura S. MakhmalbafM. Makhmalbaf
musiche M. Dar Vishi
fotografia E. Ghafori
montaggio M. Makhmalbaf
media voti redazione
Alle cinque della sera Trama del film
Primo film girato in Afghanistan dopo la caduta del regime dei talebani. Dopo la fine di 'Enduring Freedom' e la scomparsa degli uomini del mullah Omar, riaprono le scuole non solo per i bambini, ma anche per le ragazze e fra la gente torna la voglia di vivere. La figlia di un anziano carrettiere ha un sogno nel cassetto: quello di diventare Presidente della Repubblica. E', invece, costretta a fuggire da Kabul con tutta la famiglia.
Recensione “Alle cinque della sera”
a cura di Andrea Olivieri  (voto: 6,5)
"Alle cinque della sera" della regista Samira Makhmalbaf viaggia attraverso la speranza di un popolo lacerato dal regime dei talebani e dalle incursioni “liberatrici” americane.
Un anziano carrettiere vaga tra le macerie di Kabul alla ricerca di un posto dove potersi stabilire con la propria famiglia.
Noqreh, sua figlia, approfittando della caduta del regime cerca, attraverso la riapertura di una scuola, di vivere il presente in funzione di un possibile futuro: diventare presidente dell’Afghanistan.
Già autrice di "Lavagne" e "La mela", Samira Makhmalbaf raffigura tramite una lucida analisi della quotidianità afgana, l’intatta capacità di ricerca di due generazioni di persone.
Caronte, e non solo, di questo sguardo sul Medio Oriente, uno dei più famosi componimenti in versi di Lorca: "Alle cinque della sera".
L’instancabile ripetersi dei versi del poeta spagnolo sembra richiamare alla memoria i pensieri, le speranze, le paure, ma soprattutto i progetti di chi, in un mondo fatto di rovine, tutto potrebbe richiamare alla mente tranne che l’immaginazione.
E quelle scarpe bianche con il tacco che Noqreh indossa, di nascosto dal padre, sembrano creare uno spazio temporale tra la donna e il proprio paese dove tutto è possibile, anche che una ragazza diventi il presidente del proprio paese.
Il racconto, pur nella sua cruda realtà, in cui l’autrice cerca di ricordare come il cinema sia più forte e più in là dei media non è solo un monito a riflettere ma anche a vivere l’esistenza personale senza artifici.
Non solo guardare, ma osservare e capire ciò che ci circonda usando la propria testa.
Un confronto sempre leale e non inibitorio tra la tradizione (rappresentato dal padre della giovane) e le nuove realtà (Noqreh), dove l’una sia d’insegnamento, e non impedimento, alle altre.
La macchina da presa si muove sicura, seppur in una situazione circostante difficile, nel tratteggiare ciò che è oggi l’Afghanistan.
Si potrebbe obiettare che l’argomento è notorio, ma anche quando si parlava di "Roma città aperta", "Ladri di biciclette", "Germania anno zero", i temi erano conosciuti, ma non per questo la novella perdeva di forza, anzi assumeva, e oggi più che mai assume, il ruolo di strumento del vero.
Kabul sembra così distante da chi non la vive ogni giorno, eppure il film si muove in questo continuo poema del fatto cercando di darne una visione il più vicino possibile a ciò che è (una realtà drammatica) e non a ciò che dovrebbe essere (una realtà globalmente soddisfacente).
Nel rispetto di ciò che sosteneva Godard e che Samira Makhmalbaf ama ricordare, cioè che il cinema è stato inventato per mostrare la realtà e solo in seguito è diventato un mezzo di intrattenimento.
Premio della Giuria al 56mo Festival di Cannes (2003).
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