“10 canoe”, il primo film interamente girato nella lingua degli aborigeni, è giustamente stato definito da molti come una via di mezzo tra la fiaba e il documentario. E’ una fiaba nella struttura, con la voce narrante fuori campo e il racconto nel racconto fatto dal vecchio Minygululu al giovane Dayindi: le parole, lo sguardo ingenuo e fanciullesco sulle cose, la dimensione atemporale sono tutti elementi che vanno in tal senso. E’ un documentario, invece, là dove si propone di mostrare i costumi sociali e i modi di vita dei nativi australiani con un certo dettaglio, con toni espositivi-didattici (ad esempio la costruzione della canoe per la caccia nella palude) e con espedienti veristi (soprattutto la lingua originale), che contrastano singolarmente col tono fiabesco pure presente. Dalla compresenza di due impostazioni così differenti scaturisce un risultato convincente solo a tratti. Se infatti l’intento di Peter Djigirr e Rolf De Heer era quello di dare comunque un’immagine veritiera della vita nelle comunità aborigene prima dello stravolgimento portato dagli occidentali, allora l’idea che sembra emergere di un paradiso incontaminato e di una intrinseca purezza e semplicità di cuore del “buon selvaggio” lascia un po’ dubbiosi, e sembra rispondere piuttosto alla fantasia artistica dei registi. D’altra parte, se si cercava di raccontare soltanto una bella storia, allora, non togliendo nulla alla indubbia poeticità di alcune immagini e alla sostanziale piacevolezza del racconto, ci sono almeno due osservazioni da fare. Una è che la ricercata lentezza della narrazione sfugge in certi momenti di mano agli autori, così che lo spettatore si ritrova a faticare nel tenere desta l’attenzione. La seconda è che scegliere gli aborigeni come protagonisti delle vicende può pericolosamente portare, come dicevamo prima, a dare una visione del loro mondo che si fa giudizio dall’alto; l’uomo “bianco” complicato e sofisticato indulge ad ammirare la loro semplicità con un atteggiamento che può inavvertitamente scivolare nel paternalismo.
Detto questo, non si devono dimenticare i meriti indubbi del film: la bellezza delle immagini, il talento innato di molti fra gli attori (che, ricordiamolo, non sono professionisti), la poetica della semplicità. I primissimi piani con cui i protagonisti vengono introdotti sono bellissimi; i volti segnati dal sole e dal tempo, con la loro espressività, fanno il paio con le riprese di una natura quasi incontaminata, ed evocano con emozione un mondo lontano in molti sensi.
Premio Speciale della Giuria al Festival di Cannes 2006 "per originalità della sua visione". |