Film d'esordio dell'allora diciottenne figlia di Mohsen Makhmalbaf, che con il suo film aprì nel '98 il festival di Cannes. E il fascino incantatorio dell'opera prima di Samira Makhmalbaf, deve molto alla mano e al talento di suo padre Mohsen, che, oltre a firmarne sceneggiatura e montaggio, ha presumibilmente impresso molto del "suo" cinema. Di suo, e di nuovo, la giovanissima Samira ha aggiunto una regia già matura, capace di variare dal registro "sporco" della cronaca a quello fiabesco, quasi onirico, dei giochi infantili di strada; uno sguardo inedito sul mondo chiuso, difendendo appassionatamente le libertà primarie.
Lo spunto, come in "Close-up", viene da un fatto di cronaca: la scoperta della segregazione cui un padre ha sottoposto le sue due bambine, convinto che "Le mie figlie sono come dei fiori, non devono essere esposte al sole, altrimenti presto appassirebbero".
Come in "Close-up" appunto, protagonisti e vittime interpretano se stessi sullo schermo. Ma a Samira Makhmalbaf, diversamente da Kiarostami, non interessa indagare gli ambigui rapporti tra realtà e finzione. Attraverso un triplice ritratto femminile, la sua macchina da presa fa passare piuttosto un'elegia soave e perentoria sul desiderio di libertà e la libertà del desiderio. |